Un sentiero nella foresta della propria lingua, o Micromosaico dell’integrità

di Alexandra Petrova

È sempre difficile essere uno scrittore e ancor più un poeta e, data la sfortunata storia russa e sovietica, soprattutto uno scrittore e un poeta russo. Oggi, questa denominazione presume l’inevitabile desiderio di dissociarsi dalle azioni dell’esercito russo in Ucraina. Ma cosa significa per la precisione essere un “poeta e scrittore russo”? Essere di nazionalità russa e vivere nella Federazione Russa e/o scrivere in russo? Ho vissuto la maggior parte della mia vita all’estero, e solo dal 1991 al 1993 in Russia. Poco prima che me ne andassi era crollata l’URSS e un nuovo Paese era apparso sulla mappa. Dopo sei anni all’estero, sono tornata per sei mesi nel 1999. Se l’indicatore è la lingua, allora anche Svjatlana Aleksievič può essere definita una scrittrice russa, come anche il meraviglioso poeta e scrittore Shamshad Abdullayev, nato nella repubblica sovietica di Uzbekistan e oggi residente in Kazakistan. Entrambi, come me, sono nati in Unione Sovietica. Una persona che scrive in russo potrebbe essere di qualunque nazionalità, anche ucraina, e allora la risposta diventa meno prevedibile. Tanto più che oggi le persone hanno spesso più di una nazionalità, più di un luogo che considerano la loro patria.

Di certo non si può voler essere cittadini russi quando la Russia sta commettendo quello che alcuni giuristi internazionali hanno definito un genocidio. E che dire della lingua? Dopo tutto, è la lingua in cui si impartiscono gli ordini e si propaganda ferocemente l’odio verso i vicini. Quanto è responsabile della nostra vita e della sua percezione? È una concezione del mondo stesso o solo un suo riflesso? Fino a che punto siamo prigionieri del nostro sistema linguistico e fin dove ci può portare? La colpa è della lingua da cui ancora ieri traevamo la linfa creativa, o la lingua si limita a nominare, articolare e sistematizzare le nostre percezioni e idee?

Forse i popoli (o le culture) ricreano, a volte senza accorgersene, alcune idee da un testo all’altro, da un secolo all’altro, e alcune di esse si rivelano responsabili, in un certo senso, di azioni ripetute, comprese le atrocità. Queste idee fisse nella storia della cultura e del pensiero russo si possono trovare senza troppa difficoltà. Ma come si fa a respingere le idee che hanno già dimostrato di essere poco funzionali, come si fa a evitare che si moltiplichino e crescano per inerzia, e a volte anche con accelerazione? Come si possono rimuovere singole pareti di un edificio senza rischiare il crollo? Le celle di una prigione possono essere ricostruite come sala per le assemblee del popolo o è meglio demolire tutto? Come rimanere sé stessi senza rinunciare alla propria lingua, alla propria letteratura, alla propria cultura, in cui queste idee malate (a volte mortali per sé e per gli altri) si mescolano indissolubilmente con quelle che hanno vitalità e si affiancano alle migliori conquiste di altre nazioni? Se si tratta solo di una lussazione, di una frattura, quando è iniziata esattamente e quale trauma l’ha causata? Questo ragionamento è però insidioso, perché presenta l’aggressore solo come un paziente, come una vittima e richiede una figura di guaritore, un deus ex machina, un essere superiore che giudica. È possibile separare il grano dalla pula, ma una mutazione spirituale e ideologica è molto più difficile da curare, se non impossibile. Quando parliamo o scriviamo, la lingua non racchiude forse la memoria collettiva e l’insieme delle idee rimescolate che da secoli abitano in un paese e la sua cultura? Chi decide poi quali idee sono sane e quali no?

Alexandra Petrova

Come possiamo, guidati dal nostro linguaggio e dalle nostre idee, identificare noi stessi con le idee che si rivelano dannose per noi e per gli altri? Per capirlo e cambiare qualcosa, è necessario un lungo e immenso lavoro di autoconoscenza. Bisogna riuscire a identificare i significati delle parole-idee ricorrenti e analizzare come hanno cambiato la storia del Paese e delle persone. E probabilmente serve anche l’aiuto di osservatori esterni provenienti da altre culture. Tuttavia, nessun popolo si lancerebbe in una simile impresa di sua spontanea volontà. Potrebbe farlo solo se costretto dopo una scossa o una tragedia nazionale. Ed è questo shock e questa tragedia che la Russia dovrà affrontare nel prossimo futuro, grazie all’Ucraina.

È vero che tutte le guerre sono crudeli. Ovunque scattano gli stessi meccanismi di atrocità quando di fronte si vede non più un uomo, ma una maschera demonizzata frutto della propaganda e della paura. Ma questa guerra ha alcune caratteristiche singolari. È una guerra del XXI secolo che si svolge in Europa fra due popoli molto vicini e simili per la loro lingua e cultura, legati da una storia comune e spesso da legami famigliari; una guerra che è iniziata per le idee espansionistiche e imperialistiche (anche se non solo) abbracciate dalla Russia di Putin in un momento storico in cui l’idea dell’impero, almeno in Europa, è ormai superata da più di mezzo secolo. A questo si aggiunge che la guerra è condotta da quasi un anno con metodi condannati da tempo[i]. È come se Putin fosse stato catapultato qui dal passato, e con i modi del passato volesse imporre al mondo un ritorno indietro. Allo stesso tempo questa guerra ha qualcosa di estremamente contemporaneo: mai prima d’ora una guerra è stata sottoposta a un esame così attento da parte del mondo. È una guerra che ha stupito e continua a stupire gli osservatori per la sua brutalità. L’esercito russo e il Paese si sono disonorati con i crimini commessi a Bucha, Irpen, Kramatorsk, Dnipro e altri luoghi. Sono state trovate fosse comuni accanto a edifici residenziali e il reparto di maternità di un ospedale è stato bombardato sotto i nostri occhi, seppur virtuali. Già il secondo giorno di guerra, il 25 febbraio 2022, i membri della Rosgvardia, non essendo riusciti a prendere Kiev, per sei ore hanno sparato alle auto dei civili impauriti che fuggivano dalle operazioni militari, provocando 11 morti e 15 feriti. Una delle macchine è stata colpita da 178 proiettili.

Cadaveri di civili ucraini uccisi dalle truppe russe d’invasione

Come la maggior parte delle persone che vivono lontano dagli eventi, vedo solo l’ombra della guerra (i volti delle donne ucraine che si ritrovano con i loro figli in Italia, gli amici che lasciano in massa la Russia, alcuni dei quali passano per Roma), solo i suoi echi (le scarne testimonianze dei sopravvissuti ucraini, le lettere degli amici di Kharkiv e Odessa). Eppure, la guerra irrompe nelle nostre case attraverso le porte dei social media e della televisione. Con urla e sangue. Virtuale, ma sappiamo che non è un film. Rapporti, foto e video di civili ucraini feriti e morti, corpi in decomposizione di soldati russi coperti di neve. Voci di soccorritori, frammenti di battaglie e di vita di soldati ucraini al fronte registrati, imprecazioni di un nonno singhiozzante che ha perso il nipotino neonato sotto le macerie di un condominio appena bombardato dalle truppe russe. Maledizioni a tutti noi, russi. Ogni momento, ogni crimine è documentato in dettaglio dall’esercito ucraino, da giornalisti locali e occidentali e da semplici cittadini. Tutto questo si deposita come un veleno giorno dopo giorno. Anche chi è sul campo di battaglia, chi continua a vivere sotto i bombardamenti, si sta abituando, perché deve combattere e sopravvivere. Per noi, che siamo lontani, il loro incubo sta diventando uno spettacolo dell’orrore quotidiano, per alcuni persino noioso, che si associa a qualche grado in meno di calore nelle case. Tuttavia, è sempre importante che la società sia testimone del crimine, che lo veda con i propri occhi. Le fotografie della liberazione di Auschwitz fecero il giro del mondo e divennero una delle prove dei crimini della Germania nazista. Oggi queste innumerevoli testimonianze potranno servire da prove, speriamo presto, nei processi contro i responsabili di questi crimini. Ma non finisce qui il singolare e inaspettato favore che l’Ucraina ha concesso alla Russia, un favore che entrambi i Paesi, per motivi differenti, sarebbero felici di rifiutare. Grazie all’attento esame globale e ai futuri processi pubblici, all’interno della matrioska di questa guerra se ne scopriranno altre. Le liste di crimini contro l’umanità commessi dalla Russia in Ucraina permetteranno di far uscire dall’oblio eventi criminali precedenti. Dopo tutto, le stesse azioni che la Russia sta commettendo oggi sul territorio del suo vicino più prossimo le ha commesse molto recentemente in Siria. Stesso stile, stesso modus operandi. I bombardamenti aerei su larga scala contro i civili, gli ostacoli all’arrivo di aiuti umanitari. Quante vite umane innocenti, quanti bambini siriani uccisi sono sulla coscienza della Russia di Putin? Già quella guerra era stata documentata grazie a foto e video. Sono state immortalate le voci dei piloti e le immagini dei bombardamenti di quattro ospedali che si trovavano sul territorio dell’opposizione ad Assad, colpiti per dodici ore. Nel 2017 la Brigata Wagner ha filmato la tortura e l’uccisione di un uomo siriano con una mazza, il cui corpo è stato smembrato e bruciato. Nonostante l’impegno di Memorial[ii] per denunciare i fatti e portare i responsabili in tribunale, nonostante gli autori siano stati identificati, tutti i tribunali di Mosca hanno rifiutato di avviare anche solo un’indagine.

Certo, i telegiornali trasmettevano alcuni video e immagini dell’inferno siriano, la Corte di Strasburgo ha lavorato, emettendo sentenze che sono state poi derise a Mosca, ma l’Europa non si è scandalizzata più di tanto, la guerra in Siria non era all’ordine del giorno come lo è oggi la guerra in Ucraina. Solo che ora, poiché i crimini avvengono qui, in Europa, proprio accanto a noi, quasi a casa nostra, e vengono commessi su una popolazione così simile a noi, la luce dei riflettori è diretta lì.

Anna Politkovskaja, la giornalista russa oppositrice di Putin, uccisa dopo avere denunciato gli orrori della guerra in Cecenia

Dentro la matrioska insanguinata della Siria, si scoprirà la matrioska della Prima e della Seconda guerra Cecena (1994-1996 e 1999-2009), di cui tanto ha scritto Anna Politkovskaja, nota agli italiani e uccisa per i suoi articoli. Una catena di crimini militari contro l’umanità, stessi metodi, stessi orrori. Nel 2008, sempre con il pretesto di difendere i cittadini, è nata la matrioska della breve e allucinante guerra contro la Georgia. 

La matrioska siriana ne racchiude un’altra, quella della guerra afgana. Sono morti quindicimila soldati russi e circa un milione (alcuni calcolano due) di afgani, per lo più civili. Intere città e villaggi annientate dai BM-21 Grad. Ma in Russia non c’è mai stata una discussione sulle uccisioni e le torture di civili afgani. Ancora oggi, il nemico di allora è considerato un ignoto, una massa, non un essere umano.

Dalla matrioska afgana uscirà fuori la matrioska nera dell’epoca di Stalin e dell’intera URSS. Non basterebbero dieci vite per studiarne i crimini. Purtroppo, nella Russia post-sovietica degli anni ’90 non c’è stato nessun processo aperto, almeno morale, contro le persone coinvolte. Al contrario, sono stati i vertici sovietici e i loro figli ad appropriarsi delle ricchezze della nazione e ad aprire conti in banche estere più velocemente di chiunque altro, rimanendo in posizioni di comando e limitandosi a tingersi di un altro colore. Siamo stati crudelmente ingannati quando abbiamo sognato una trasformazione istantanea della Russia. Il Paese, immerso nei campi di concentramento fino alla fine degli anni ’80, dove un cittadino su tre era in prigione e uno su due era un boia, un guardiano o un informatore, dove nessuna famiglia era indenne da questo contagio, non ha potuto epurarsi immediatamente dal suo passato e al contrario, è stato quasi spinto a seguirlo, amalgamando il potere con le forze criminali e l’etica e l’estetica carceraria.

Dopo le matrioske dell’era sovietica e del bolscevismo, arriveremo alla matrioska più distante nel tempo, la loro progenitrice: la matrioska della Russia zarista, dove i soldati venivano picchiati impunemente, dove la schiavitù legalizzata dallo Stato (compravendita di persone che appartenevano alla stessa fede e cultura come fossero animali o cose) è durata fino alla seconda metà del XIX secolo, dove la violenza era la norma. Si poteva essere condannati al plotone d’esecuzione per aver letto letteratura indesiderata in un circolo studentesco, o all’esilio in Siberia per un articolo sui monaci del Monte Athos.

L’odierno Stato russo, che costruisce il suo potere sull’impunità e sull’illegalità, su un elaborato sistema penale in cui i criminali non solo non vengono puniti ma ricevono titoli e riconoscimenti, ha finora cercato di respingere la verità spacciando le notizie vere, anche le più tragiche e orrende, per fake news e moltiplicando le menzogne. Queste ultime non sono difficili da smascherare, ma non tutti i cittadini russi hanno tempo per cercare altre fonti, (perché Internet libero in Russia non esiste più), e la gente per abitudine, ignoranza e apatia continua ad ascoltare i canali statali. L’obiettivo dei servizi segreti russi è sempre stato creare il caos, mettere le persone, i Paesi e i partiti politici gli uni contro gli altri, in modo che la verità, la realtà, le voci vive delle persone che cercano il cambiamento, scomparissero dietro questa polvere. È uno dei motivi per cui Putin paga degli informatici per filtrare le informazioni sulla Russia dovunque nei social. Appena comincia una discussione sull’Ucraina, sull’assenza di diritti umani о di libertà di espressione in Russia, irrompe un esercito di bot che incitano all’ostilità, alla violenza e all’aggressione, creano confusione, aggredendo chi partecipa alle discussioni, aggrappandosi a qualsiasi parola. La Russia non è riuscita ad essere un paese industriale allo stesso livello dell’URSS e cerca di competere con il mondo tecnologico grazie ai colpi bassi, inflitti anche dagli hacker. Ma è un’arma a doppio taglio. [iii]

Se alla Russia toccheranno i processi al suo sistema criminale e le sentenze di riparazioni all’Ucraina, il comune cittadino nato in questo Paese dovrà un giorno rendersi conto che mentre era impegnato nelle sue faccende domestiche, mentre ancora si illudeva che grazie al prezzo del petrolio la Russia si stesse trasformando in un moderno Stato civile, in realtà il suo Paese distruggeva fisicamente città e villaggi stranieri e impoveriva i suoi cittadini. Scoprirà di essere stato ingannato.

Penso che per molti anni ancora tutti coloro che sono nati o sono emotivamente legati alla Russia non potranno fare a meno di provare rabbia e depressione, l’amarezza della vergogna e quel senso di colpa metafisico di cui parlava Jaspers nelle sue conferenze del dopoguerra nella Germania sconfitta. Ho paura che lo stesso nome “Russia” o “russo” possa acquisire per un periodo un suono infame, come è successo dopo la Seconda guerra mondiale con “Germania” e ” tedesco”. La Russia sta commettendo dei crimini e deve essere punita. Il fatto però che una “persona russa” possa diventare un paria a prescindere potrebbe essere una pericolosa semplificazione a cui l’Europa è già andata incontro.

È difficile condannare i cittadini comuni. Sotto la Germania nazista i turisti andavano lì per rilassarsi, divertirsi, godersi la natura, studiare all’università, e, per non rovinarsi le vacanze, chiudevano un occhio su ciò che accadeva intorno. Alcuni cittadini tedeschi sono riusciti a non accorgersi di nulla quasi fino alla fine. Purtroppo, qualcosa di simile sta accadendo oggi in Russia. I moscoviti sono orgogliosi del loro ordine, della pulizia delle strade, la vita culturale continua come sempre, caffè e ristoranti sono affollati, come se in questo momento le persone nelle città e nei villaggi ucraini non stessero cercando i corpi dei loro cari mutilati dai bombardamenti russi, come se nuovi campi di concentramento e camere di tortura con pareti macchiate di sangue non stessero comparendo sulle mappe del paese martoriato.

Ma in Russia c’è anche chi non può continuare a vivere la propria vita come se nulla fosse. Vivono con grande dolore e cercano di fare il possibile. Un numero enorme di persone è emigrato. E non ho diritto di accusare nessuno di codardia. Si conoscono tanti casi di resistenza partigiana contro gli occupanti, ma le rivolte contro i regimi totalitari sono quasi sconosciute. La gente non è scesa in piazza contro Stalin, Hitler o Mussolini quando erano al potere. Nella Russia di oggi non sono in molti ad applaudire Putin, la gente è piuttosto indifferente e impegnata a sopravvivere, anche se quasi ogni giorno, rischiando la propria libertà e la propria salute, e a volte la vita, ci sono persone coraggiose che dicono “no”, portando fiori ai monumenti dei poeti ucraini, raschiando e cancellando la lettera Z sui mezzi di trasporto e sulle case, lasciando graffiti sulle facciate. Le persone che hanno detto la verità sui crimini di guerra della Russia, a volte semplicemente riportando punti di vista di esperti o contenuti di rapporti internazionali, come ha fatto Il’ja Jašin, oggi sono in carcere per aver diffuso falsità sull’esercito russo. Tutta la realtà russa di oggi appare come in uno specchio deformato dove un patriarca incita alla guerra santa contro l’occidente nel Tempio maggiore delle forze armate, i cui mosaici rappresentano l’incontro tra una santa russa e uno dei più sanguinari persecutori della chiesa, Iosif Stalin, presentato come il vincitore assoluto della guerra contro il nazismo.

Osip Mandel’stam ritratto nel 1938, l’anno della sua morte

Alcuni danno la colpa alla cultura, alla letteratura russa, portatrice del virus imperiale. Che dovremmo fare? Forse bruciare, censurare, rimuovere da noi stessi questa cultura per guarire? Condanniamo i poeti e i prosatori russi del passato, smettiamo di leggerli? E con loro rimuoviamo tutti quelli che hanno influenzato, condannando i film di Kurosawa, di Juho Kuosmanen, i libri di Thomas Mann, di Kafka, di Italo Svevo… Certo, né Tolstoj né Dostoevskij erano perfetti come uomini, ma sono ancora oggi scrittori eccezionali, anche in virtù della loro umana imperfezione. Hanno saputo sondare le profondità più buie della mente, non quella russa, ma quella umana. Per questo hanno avuto un tale seguito anche al di fuori della loro lingua, come anche le poesie di Mandel’štam “fratello misconosciuto, nella famiglia del popolo reietto” o di Marina Cvetaeva, i racconti e le opere teatrali di Čechov. L’unico bene che la Russia ha saputo condividere con tutti è stata la sua letteratura (e in misura minore la musica, il cinema e l’arte visiva). Non ha altro. I suoi cittadini hanno sempre vissuto una vita talmente dura, soffocante, disumana che alcuni hanno provato la necessità di crearne una parallela. E anche se questa letteratura, come qualsiasi altra, racchiude i segni distintivi di un periodo storico passato, rimane comunque rivoluzionaria, complessa, mai conformista. Il problema è che non è stata letta abbastanza o è stata letta male, non il contrario. Posso amare Puskin e amare nello stesso tempo Adam Mickiewicz, stando però dalla sua parte per tutto quello che ha pensato del potere zarista e del popolo russo dell’epoca, per quello che hanno subito lui e tutta la sua Polonia. Credo che la letteratura russa sia stata sequestrata, è prigioniera del potere della Russia di Putin, è stata espropriata come tanti altri beni durante la Rivoluzione d’Ottobre o negli anni della Perestrojka. Ma non appartiene a loro in nessun modo. Ovviamente leggere molto non assicura l’immunità dai crimini, l’arte non è un manuale di istruzione, e per questo trovo assurdo fare un processo alla letteratura del passato, perché alcune idee imperialistiche possano spronare intero popolo alla guerra. Non so in che misura Richard Wagner possa essere responsabile del nazismo, ma capisco perché le sue opere non potranno mai essere suonate in Israele. Ma Čajkovskij, che si ispirava anche alle canzoni ucraine, può essere considerato responsabile solo perché è diventato una specie di simbolo del regime criminale e imbecille? Forse non sono tanto “la mentalità” o “le idee fisse” a spiegare i crimini ripetuti dalla Russia, ma l’impunità, la permissività, l’assenza di controllo e spesso l’assenza di reazione indignata, sia interna che esterna. E la fascistizzazione dello stato e del suo popolo sta avvenendo più per ignoranza, per colpa della chiusura e soprattutto della povertà e della propaganda.

Quando andai all’estero nel 1993, pur desiderano vedere il mondo che si era di colpo aperto dopo la caduta del Muro di Berlino, vissi quella partenza come una tragedia perché gli schemi del passato erano ancora molto forti: l’emigrazione equivaleva alla morte. Da quell’istante la mia lingua madre e la mia poesia divennero la mia unica casa, proprio come lo era stata per gli emigranti delle ondate precedenti. Spesso gli emigranti romanticizzano la loro patria. Io no. Anzi, forse è successo proprio il contrario. Nuovi Paesi mi hanno fatto vedere i mali del mio. Più mi allontanavo geograficamente e temporalmente dalla Russia, più vedevo chiaramente alcuni momenti chiave della sua storia. Ed è solo a Roma, quando ho iniziato a lavorare come guida turistica, che ho avuto modo di conoscere davvero i miei connazionali. Per trent’anni ho continuato a scrivere in russo vivendo lontano da dove sono nata, e la mia lingua ha incluso gli anni trascorsi a Gerusalemme e un quarto di secolo a Roma. Ai miei inevitabili accenti sovietici e pietroburghesi si sono aggiunti quelli gerosolimitani, inglesi e romani, e mi è difficile definirmi una scrittrice russa nel senso consueto del termine. Oggi, ad esempio, mi sento spesso un’italiana che scrive in russo. E ci saranno sempre più persone come me, con identità multiple e affiliazioni linguistiche doppie o triple. Sono russa, ma anche in parte ucraina, ebrea, bielorussa, polacca, finlandese, tedesca e italiana (il mio DNA e i miei documenti lo dimostrano). Tirando le somme, mi definisco semplicemente di razza umana, sperando di essere umana. Ogni persona (russa) è composta da vari pezzi e culture, che un giorno possono essere risvegliati, nonostante il sistema statale abbia cercato di scartarli. Tutti questi tasselli permettono di avere una maggiore empatia verso l’altro, pur rimanendo integri.

Probabilmente non sono l’unica ad aver percepito la falsità della propaganda sovietica fin da piccola. La mia generazione, nata negli anni ’60 e ’70, era accomunata da una sorta di desiderio per l’ignoto e dalla sensazione che qualcosa ci venisse nascosto. Eravamo oppressi da slogan e manifestazioni, e il senso di disperazione negli occhi cupi degli ubriachi nei vicoli, che si moltiplicavano dopo le feste dello Stato, sollevava un velo su una realtà inconoscibile e senza speranza. Non ho mai visto entusiasmo per l’ufficialità sovietica nella mia famiglia. Come molti bambini, ho colto avidamente frammenti di giudizi o riserve e gli scarsi ricordi di mia madre e mia nonna e dei loro amici, trascinando queste briciole rubate nella mia ricostruzione di un passato veritiero. Intuitivamente sentivo che le relazioni umane, specialmente quelle tra una persona con un minimo di potere (un’infermiera, un commesso o il direttore di un sanatorio o di una scuola) e i suoi subordinati non dovrebbero essere costruite sull’umiliazione e sulla paura. Anche se nessuno di noi bambini e adolescenti conosceva altri esempi di società, grazie ad alcuni libri potevamo percepire che qualcosa non andava in noi. Un’inaspettata indipendenza di pensiero mi è stata regalata dallo sfogliare senza sosta gli album d’arte e dalle visite all’Ermitage. Dopo la scuola, portando con me la borsa piena dei libri e quaderni, andavo lì, incantata, a fissare per ore i quadri o a camminare per le sale deserte. Non c’erano bugie, né finto entusiasmo, né pressioni, né controllo statale su alcun aspetto della vita. Stranamente, in quel periodo la pittura, più che la letteratura o le discussioni intorno a me, mi ha insegnato una lingua nativa, in parte dimenticata, e la vita in generale, ricreando il perduto e l’impronunciabile.

Non provavo un sentimento particolare per il Paese in sé, per la vastità dell’Unione Sovietica, di cui avrei dovuta essere orgogliosa, ma certamente amavo il luogo in cui vivevo. Ho associato la parola russità e la Russia alla città in cui sono nata. È a San Pietroburgo, piuttosto che nella Mosca patriarcale e tradizionalista, che si è conservata molta più memoria del passato. Mosca era un centro di potere, affaristico e pragmatico, pieno di risorse e di denaro da tutte le regioni, e non c’era tempo per i ricordi, mentre San Pietroburgo era una città senza soldi e anticonformista, di gente solitaria e a volte bizzarra. Il passato reale e immaginario di Pietroburgo si fondeva in una citazione culturale universale, un sogno europeo, un prototipo di qualcosa di perduto ma che poteva rivivere attraverso un nuovo sforzo artistico e intellettuale. Il gioco e l’autoironia si combinavano con un’incredibile serietà e sincerità.

Spiccava anche il ricordo dell’Assedio di Leningrado. Come quasi tutti i bambini la cui famiglia è sopravvissuta ai terribili 900 giorni, ho colto verità non ufficiali a riguardo, che ancora oggi sono scomode da raccontare. Il ricordo di quei giorni era onnipresente, anche se emergeva solo a sprazzi ed era vissuto come una sorta di risentimento segreto contro lo Stato, che aveva condannato Leningrado a quel calvario disumano, ignorando le vie alternative di approvvigionamento ed evacuazione della popolazione civile inerme quando solo le famiglie della nomenclatura avevano la possibilità di ricevere cibo a sufficienza.

Per molto tempo Pietroburgo è rimasta per me il centro del mondo, e mi ha sorpreso sentire dell’esistenza di una “capitale” quando ero in prima elementare. Era come se la città esistesse separatamente dal resto del mondo sovietico, vivendo di sé stessa e riflettendosi in sé stessa, e i poeti locali scrivevano in una lingua che attingeva la propria espressione dalla città. In questo senso, Putin, considerato pietroburghese, sembra essere nato in una città molto diversa dalla Pietroburgo mia e dei miei amici.

L’età d’argento e la poesia del primo Novecento, sono state percepite dalla nostra generazione come l’apice della cultura russa, che all’epoca era anche organicamente inserita nel contesto europeo. Era come se i 60-70 anni successivi non fossero mai accaduti. Gli anni delle sanguinose repressioni, delle denunce e dell’Holodomor si riflettevano anche nella letteratura, ma quei testi erano quasi inaccessibili o non erano ancora stati scritti perché era passato troppo poco tempo. Cercando di ricostruire il processo letterario di quella generazione semi-annientata abbiamo dovuto ricominciare quasi da capo, da una sorta di punto negativo, perché il primo quarto del XX secolo era solo una città sommersa. Il punto di partenza delle speranze affondate si trovava anche a Berlino, dove, dopo la Rivoluzione, si era riunito il fiore dell’intellighenzia russa che aveva perso tutto, o quasi, tranne la propria lingua e cultura. Hanno cercato di conservarle e di trasmetterle ai posteri, fino ai loro ultimi giorni sperando in un ritorno.

Quindi per me la mia lingua non era la lingua dell’impero russo e poi sovietico, non era la lingua dei boia, ma la lingua della minoranza, degli assassinati e degli esiliati; mi sentivo anche la loro erede.

Una veduta notturna di San Pietroburgo

Il centro di Pietroburgo, dove nemmeno il regime sovietico era riuscito a cancellare la memoria del suo orientamento europeo e multiconfessionale, ha ampliato la mia visione infantile del mondo: una chiesa armena, un’altra luterana, una chiesa cattolica, una sinagoga. Quasi tutte erano in disuso, ma i loro nomi venivano pronunciati come toponimi insieme ai nomi degli architetti di vari palazzi e chiese: Rastrelli, Rossi, Quarenghi, Montferrand, o il nome della antica scuola tedesca Petrischule, che, pur avendo perso da tempo il nome pre-rivoluzionario, veniva chiamata alla vecchia maniera. Dopo aver finito la scuola, ho avuto finalmente un vero incontro con un altro Paese e un’altra cultura: ho iniziato i miei studi all’Università di Tartu. Tartu è una città studentesca dell’Estonia centrale, a sette ore di autobus notturno da San Pietroburgo. All’epoca sapevo già che l’Estonia era stata annessa all’Unione Sovietica con la forza. Scoprire la verità storica in Unione Sovietica era molto difficile, persino rischioso. Certo, ho trovato riviste vietate stampate all’estero e libri samizdat[iv], che gli amici erano soliti passare di mano in mano per qualche giorno, ma non c’era nulla sull’occupazione dei Paesi baltici, e io stessa non sono entrata nei dettagli. Negli anni ’80 a Tartu si viveva quindi tra la popolazione estone, più o meno ostile a noi russi (o considerati tali) e alla nostra vita studentesca spensierata ed estranea ai sensi di colpa. Una comunità giovanile di studenti accorsi da varie città dell’Unione Sovietica per studiare dal grande Jurij Lotman. Ma c’erano altre due ragioni per recarsi a Tartu da altre repubbliche sovietiche: quell’università, a differenza di altre, non bocciava automaticamente gli ebrei agli esami di ammissione e ammetteva anche i rari non iscritti al Komsomol[v] (come nel mio caso).

Eravamo tutti così presi dalla nostra giovinezza, dagli studi, dai rapporti reciproci, che non abbiamo approfondito le ragioni della nostra segregazione e dell’ostilità, non sempre palese, dei coetanei estoni nei nostri confronti. Avvertendo vagamente un certo senso di colpa, sono andata comunque con il desiderio di imparare l’estone e di fare possibilmente amicizia con le persone del posto. Sono stata fortunata. Ancora oggi sono amica di Ülo, i cui genitori, per paura e per proteggere la loro carriera, avevano regolarmente mandato il figlio in un ospedale psichiatrico per curarlo dalla sua mania di libertà con farmaci ed elettroshock. Come altri giovani estoni, parlava apertamente dei suoi sogni di indipendenza dell’Estonia dall’Unione Sovietica. Come me, sognava la libertà dal regime e nemmeno l’elettroshock è riuscito a guarirlo. Questo incontro con una persona di un’altra cultura, un giovane della mia età, è stato per me uno degli eventi più importanti della mia giovinezza. Tuttavia, i dettagli raccapriccianti della deportazione di massa degli estoni (soprattutto bambini e donne) nel 1941e nel 1949 nei vagoni di rifornimento verso la Siberia dopo le due occupazioni sovietiche degli Stati baltici (nel 1940 e nel 1945), le violenze, i saccheggi, i maltrattamenti e le distruzioni barbare e insensate non mi sono stati rivelati dal mio amico, ma dall’anziana signora da cui avevo affittato una stanza. Non si stancava mai di dirmi in estone quanto odiasse e disprezzasse i russi. Il paradosso, tuttavia, è che lei stessa era di etnia russa. A diciannove anni, questa discrepanza mi ha aiutato a capire: appartenere a una cultura, a una lingua, a un’etnia, a una nazionalità, a una mentalità, alla cittadinanza di un Paese, sono cose diverse. Possono non coincidere.

Gradualmente è diventato sempre più difficile per me vivere in Estonia. Imparare bene la lingua, tagliando il ghiaccio dell’ostilità, non funzionava nemmeno per me. Mi sentivo indirettamente coinvolta nelle sofferenze del popolo nel cui territorio vivevo come occupante, e dove parlavo la lingua degli occupanti che odiavano, sebbene anche la mia famiglia avesse sofferto sotto il dominio sovietico (all’epoca sapevo solo che mio nonno era considerato un nemico del popolo ed era stato imprigionato nei campi staliniani). A quel tempo non avevo ancora letto il libro di Karl Jaspers La questione della colpa, dove elenca diversi tipi di possibile colpa, tra cui la colpa metafisica del popolo tedesco nei confronti del resto d’Europa e in particolare degli ebrei, ma certamente sentivo proprio quel tipo di colpa e le sue conseguenze. La scoperta che gli estoni, vittime del popolo russo, erano stati essi stessi complici (anche se in minima parte rispetto, ad esempio, alla Lituania) dei crimini contro la popolazione ebraica mi ha portata nel labirinto delle riflessioni sull’imperfezione della stessa natura umana e ad una più razionale convinzione della necessità di un’introspezione sociale collettiva.

Tuttavia, come i lituani e gli estoni hanno continuato a scrivere poesie nella loro lingua, come gli italiani possono scrivere nella loro anche dopo i crimini in Africa o gli inglesi e i francesi dopo secoli di conquiste coloniali, così ho continuato e continuo a scrivere in russo, portando involontariamente il peso della responsabilità del passato, ma non essendo personalmente coinvolta nei meccanismi criminali, e cercando di smascherarli con la mia scrittura.

Dal primo giorno di guerra e nel corso dei tre mesi successivi ho ricevuto brevi messaggi da un mio amico di Kharkiv, la città dove vivevano i miei antenati. Il mio bisnonno era un fotografo, come il mio conoscente, e abbiamo comunicato per vari anni, scambiandoci le scoperte sulla mia famiglia dall’Ucraina. Ancora oggi comunico in russo con i miei amici ucraini. Per molti ucraini è la loro lingua madre, anche se la generazione più giovane, pur nelle famiglie russofone, cerca di passare all’ucraino, dissociandosi dalla lingua del nemico.

Poco prima della guerra del 24 febbraio, grazie alle scoperte di alcuni storici, ho cominciato a ricostruire la storia della mia famiglia. Come in tante altre, la memoria è stata occultata quando non era in linea con l’ideologia corrente esuscitavapaura nei famigliari. Stavo pensando di andare a Kharkiv per vedere cosa era rimasto dopo la Rivoluzione e la Seconda guerra mondiale. Uno dei miei antenati diretti è stato il principale architetto-progettista di Kharkiv (all’epoca città principale della Malorossia[vi], che faceva parte dell’Impero russo) a metà del XIX secolo. Un altro paradosso: il padre di questo antenato proveniva dalla Sassonia, era luterano, e i suoi tre figli divennero architetti russi, creando un caratteristico stile russo-bizantino.

I primi messaggi del mio conoscente, da cui poi ho tratto un diario, sono stati per me come un terremoto. Per le prime ore, ancora incapace di credere che fosse vero, ha registrato gli eventi. Per lui era importante condividerli con me come amica e rappresentante del popolo russo.

Da quel momento la vita è cambiata bruscamente e irrevocabilmente. Kharkiv è stata distrutta e difficilmente la visiterò presto, molti villaggi e città ucraine non esistono più, gli archivi di Kharkiv sono stati distrutti al 60% da questa guerra.

Ancora una volta, seguendo la tradizione sovietica, la Russia ha cercato di cancellare la memoria. Ma la memoria sopravvive comunque e porta con sé la consapevolezza che è la via per una possibile catarsi.

* Gennaio 2023, precedentemente pubblicato su “Micromega”


[i] Poco prima dell’inizio della guerra, c’è stata nelle Scuderie del Quirinale una mostra l’Inferno. Si potevano esaminare le diverse forme d’infernalità, i cerchi del male che crescono in noi e che hanno fatto girare l’umanità in tondo per secoli. Al centro del primo piano si trovava il reparto dell’inferno più fresco e concreto, illustrato da Otto Dix e altri, il cui rifiuto, compreso della parte di noi stessi che lo aveva appassionatamente creato, determinò la seconda metà del XX secolo: le atrocità delle lontane Prima e Seconda Guerra Mondiale. Lo guardavamo con un timido timore, quasi con diffidenza. Dopo la Shoah, alcuni hanno taciuto per sempre, ma noi, che siamo venuti dopo, abbiamo cinguettato come se nulla fosse accaduto. Dopo Bucha di nuovo abbiamo capito che l’inferno creato dall’uomo non è nel passato, non è dietro di noi, non è stato lasciato nelle baracche di Auschwitz-Birkenau, o nei fossati degli anni della guerra pieni di morti senza nome, ma si trova dietro l’angolo, dentro la nostra materia grigia.

[ii] Memorial – una organizzazione internazionale fondata in Russia (e d’ora lì proibita) durante la caduta dell’URSS per esaminare le violazioni di diritti umani.

[iii] Il 29 gennaio del 2023 gli schermi informativi dell’Ermitage hanno cominciato a trasmettere informazioni sugli orrori commessi dall’esercito russo a Bucha (definiti fake news dal Ministero della Difesa). In questo momento la polizia sta cercando i responsabili di questa azione, lanciata dopo che il Ministero della Cultura aveva scritto a uno dei principali musei russi, la Galleria Tretyakov di Mosca, chiedendo spiegazioni “sulla questione dell’adeguamento dei contenuti delle mostre permanenti e termporanee della galleria ai valori spirituali e morali”. Al museo è stato ordinato di rispondere entro il 6 febbraio. La richiesta è nata da un reclamo al Ministero della Cultura da parte di un visitatore del museo, secondo il quale una mostra di Tretyakov era contraria alla politica statale “sulla conservazione e il rafforzamento dei valori spirituali e morali tradizionali della Russia”, come stabilito da un decreto presidenziale del 9 novembre 2022.

[iv] Samizdat (letteralmente “edito in proprio”) sono le pubblicazioni di dissidenti diffuse in URSS in copie ciclostilate o scritte a mano.

[v] Komunisticeskij sojuz molodezi – l’unione dei giovani communisti.

[vi] Malorossia – letteralmente Piccola Russia

Lascia un commento