Rocco Scotellaro (1923-1953): autore di una limpida etnologia poetica

di Paolo Carlucci

Hanno i volti delle statue

le femmine ai lumi

 Giovani spose

Le nuche pettinate

delle giovani spose

del mio paese.

Nere nere nere.

 Vengono nei carretti i forestieri

a prendersi la festa di vederle.

A cento anni dalla nascita, affascina e sorprende, la poetica di Rocco Scotellaro (Tricarico, Matera, 1923 – Portici, Napoli, 1953). Essa è da rileggersi, e rivalutarsi meglio oggi, certo al di là delle furiose ideologie di una certa sinistra: si pensi ad Alicata, ma pure a Vittorini, detrattori dell’idillio triste del Sud, intonato a stilema nostalgico, che alla modernità politica della lotta, al Garofano rosso, insomma, preferiva il miele del ricordo…

Questa catena elegiaca e descrittiva, ha attanagliato la visione della poesia meridionalista, negli anni del secondo dopoguerra. Un lirismo visto appunto come compiaciuto idillio campestre, ma in realtà decadente e aristocratico, che riassumiamo nelle parole di Carlo Salinari, il quale così etichetta il poeta di Tricarico: è un poeta abbastanza vivo, di una tradizione e di un passato ormai chiusi, non è certo il poeta dell’avvenire.  (“Il Contemporaneo”, 28 agosto ’54).  

Un crepuscolare attardato dunque per la critica di orientamento marxista, Rocco, pur impegnato nel sociale, non era quasi considerato un poeta popolare, proprio perché, gramscianamente, era in realtà un…  etno-poeta!  

Nell’ opera di Scotellaro, che a Tricarico fu tra l’altro giovane sindaco socialista nel pieno della nuova questione meridionale e delle occupazioni delle terre del Mezzogiorno, c’è sempre una drammatica e personale ricerca di sé, nella radice di vita e forma di una società viva, ma in crisi, come rivelano le prose autobiografiche de L’Uva puttanella e gli scritti di Contadini del Sud.

Fondamentale, si sa, fu l’apporto umano e critico di Carlo Levi, all’apparire della sua indagine poetica. L’autore di Cristo si è fermato ad Eboli (e pittore ispirato delle campagne e delle miserie del Sud), fu un abile e fine scopritore della poesia di Scotellaro.

Levi, sottolineando l’importante nodo creativo, scriveva nella premessa all’opera di Rocco sincere e appassionanti note di antropologia poetica. In lui, la forma scaturiva da una ricerca, dal recupero personale di un patrimonio ancestrale e corale, di cui farsi cantore. “Rocco Scotellaro deve farsi da sé, deve inventare se stesso, e la forma del suo mondo poetico; non ha radici colte, se non quelle dell’antichissima e ineffabile cultura contadina.”

Rocco Scotellaro 

A questo giova riportare quanto Amelia Rosselli, poetessa e amica cara di Rocco Scotellaro, in quei fervidi anni giovanili, ben attenta ai toni etnici nella musica e nel linguaggio delle arti, ritrovava negli esperimenti linguistici formali della produzione letteraria del poeta. La riporta Plinio Perilli, in una sua nota critica in dialogo appunto con la Rosselli:

… Contadini del sud è stata la mia Bibbia, per un mare di tempo… proprio linguisticamente, per gli esperimenti che faceva Scotellaro, col linguaggio dell’analfabeta che trascrive. Era una personalità molto originale, fuori dal comune; e poco ambiziosa: in senso mondano ancora meno…”.  

Analfabeta che trascrive…. Ecco la cifra stilistica di Scotellaro, il tratto autentico di tessitore di canti, diremmo popolare in un’ottica etno-antropologica, per dirla con Ernesto de Martino, rivelatore geniale delle radici magiche e sacrali del mondo del Sud Italia.

Il giovane poeta-sindaco lucano, si fa interprete dei cromatismi arcaici, di riti e nenie del mondo arcaico e rurale del Sud. In questo patrimonio di essenze vitali e di rinascita, avvertiamo richiami ai temi forti dell’epica contadina di Carlo Levi e, sulla vecchia scena europea, di Esenin e del panslavismo russo, travolto dai cento tradimenti della Rivoluzione d’Ottobre.

Scotellaro raccoglie come un viaggiatore in versi, tracce del pianto incatenato di un Sud atemporale, ma sempre brutalmente subalterno, per essere documento di una limpida etnologia poetica.  

Forte e tagliente, il ricordo scava ancestrali riti di Natura, verseggia scene di folclore contadino. Ma c’è nel colore lirico, un’ansia viva di rinascita e di impegno civile.

Scotellaro dà così voce ai subalterni, ai braccianti affamati di terre, in lotta con campieri e latifondisti; ma al contempo quei braccianti sono le voci di una resistenza etno-poetica da raccogliere, trascrivere, documentare in versi o in inchieste sociologiche: come del resto fecero o ancora faranno Carlo Levi, Manlio Rossi Doria, Danilo Dolci, e soprattutto l’antropologo  Ernesto de Martino.      

Il cielo gemma di terra, il Sud si fa madrigale del quotidiano…  

E dell’urgenza di vita profonda, aspra e dolce come l’uva puttanella, si sofferma Dario Bellezza in un articolo del 1978, il 17 dicembre, su “Paese Sera”:

“Rocco Scotellaro è un rimprovero vivente per la poesia italiana così vuota di senso ormai, avendo imboccato una strada ruffiana e formalista, dove la vita è fuggita urlando”…

Vestivi dei fiori delle ginestre / ridonate all’incolto pendio. / Inviolata eri e chiusa / come un acerbo fiorone. / Avevi l’occhio bianco dei faveti / spaurito, simile alle lepri / prese nel laccio delle mute. / Io quando t’assalii / sentii il tuo ventre ridere. / E le tue guancie arrossate / erano un altro selvatico fiore / lasciato a pascolo.”  

Semplice “Giardino dei poveri”, in cui “Le viole sono dei fanciulli scalzi”, ma…  

Ora ritorna la zecca ai cavalli / ventila la mosca nelle stalle / e i fanciulli son scalzi / assaltano i ciuffi delle viole.

Così il Sud risuona nenia e giardino dei poveri… Un chiaroscuro tra viti e girasoli, tra amore e turbinoso contrasto città-campagna nel pieno di una mutazione antropologico-politica ed economica, della trasfigurazione poetica del sudore nel sole dei mietitori. Suonano il mattutino, i suoi versi: sveglia la coscienza questo poeta che ha da dire e mostrare la congiuntura dolorosa tra città e campagna, tra strapaese pre-industriale e modernità.

Oggi, nella potente e tentacolare rivoluzione ipertecnologica e nello stravolgimento ambientale, sentiamo il viatico di caparbio impegno poetico nell’opera del poeta-ragazzo e sindaco di Tricarico. Nei versi stempera il colore di una denuncia antropologica, una sete di rinascita, che passa attraverso istantanee preindustriali di un Sud Italia e di un mondo che nella dissoluzione dei suoi giorni e magiche, arcane maggiolate (“Non sentirò mai più la maggiolata, / la figlia della quercia e della macchia”), si faceva operaio randagio, migrante metropolitano e proletario di fabbrica al Nord.

Si veda questo fascinoso incipit di “Ricordi”:

Ho le mie mani legate/ a un ramo secco le foglie/ sono ingoiate nell’asfalto. / Ho atteso di succhiarti, / mandorla vizza / sepolta ai piedi d’un vecchio tronco.  

Esemplare questo dissidio risolto in versi di autentica mutazione antropologica e nenia di natura abbandonata, in“Passaggio alla città”:

Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, / ho perduto la mia libertà. / Città del lungo esilio/ di silenzio in un punto bianco dei boati, / devo contare il mio tempo / con le corse dei tram, / devo disfare i miei bagagli chiusi, / regolare il mio pianto, il mio sorriso….

E allora, a questo addio a “distese ginestre” e “spalle larghe dei boschi”, alla “terra gialla e rapata” trasfigurata quale “donna che ha partorito”… ora, nella “schiavitù contadina”, smarrita nel vapore della civiltà dell’industria e della metafora eterna come di una via Gluck cementificata (la presto celebre ballata di Celentano), ecco si fa contraltare rustico il ricordo struggente dell’amore per una giovane, una “ragazza  morta”, che è la vita di ieri, colta come nenia rituale e luttuosa.  

In un momento ti scordasti di noi, / ti cadde dal grembo la mano / e ti compose dritta la veste nuova. // Vennero i contadini / a scoprirsi davanti a te. / Ti conobbero allora. / Presero il pugno di grano / che ti spettava il giorno delle nozze.

È in questo canto del passaggio il cuore nudo di Rocco Scotellaro, cuore e geografia di Lucania, che tra maggiolate e rosolacci, si È fatto giorno, e ceri e poesia ha acceso di ricordi, sponsali e nenie di vento, tra querceti e fabbriche, alla dolente ma speranzosa metà del secolo scorso.

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Note

Rocco Scotellaro, È fatto giorno, Mondadori, Milano, 1954 (nuova edizione negli Oscar, a cura di Franco Vitelli, 1982).

Amelia Rosselli, Variazioni belliche, nuova edizione aumentata, a cura di Plinio Perilli, Fondazione Piazzolla, Roma, 1995 (ci si riferisce all’intervista in appendice, dove Amelia ricorda con affetto Scotellaro).

Plinio Perilli, Melodie della terra, Crocetti Editore, Milano, 1997.

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