Mario Lunetta: rosso grottesco e farsa infinita

di Donato di Stasi

Prognostica su La forma dell’Italia (Manni 2009)

  1. Mario Lunetta (1934-2017) è un metautore: uno sperimentatore accanito (saggi, poesie, racconti, romanzi, testi teatrali, critiche d’arte), un poligrafo raffinato, abrasivo, ostinatamente controcorrente. Uno dei pochi per i quali il termine antagonista non risulta uno spreco d’inchiostro.

Avendo all’attivo una sessantina di volumi, approda nel 2009 a un’opera di assoluta libertà creativa, La forma dell’Italia, forse il suo apice, di certo una commistione di incazzatura e di stile senza pari. Nelle dodici sezioni del libro (ripartite in due gruppi di sei in una prima e una seconda tavola) si respira il gusto del bello e si prova un rabbioso disgusto verso la sciatteria, la volgarità, le miserie materiali e morali in cui il Bel Paese si immelma da svariati decenni.

Dopo aver ruminato tanto pensiero critico, dopo aver sbrindellato convenienze e loci communes, dopo aver piantato le forche caudine della scrittura materiale (Lo stuzzicadenti di Jarry nel 1972, Cadavre exquis nel 1985, Pianosequenza nel 1990, Catastrofette nel 1997, Magazzino dei monatti  nel 2005, per citare alcuni titoli), Mario Lunetta si insedia saldamente nel presente, accettando di scontrarsi senza reticenze con la cittadella fortificata del qualunquismo italico e con la coeva cattiva coscienza collettiva.

Il Nostro innalza il vessillo della ragione cinica per urlare che l’élite borghese trasforma ogni giorno di più gli italiani in una massa ignorante e passiva, degradandola fino all’imputridimento con la complicità dei sistemi di comunicazione di massa, a cui è affidato il compito di distruggere le trame organizzative del pensiero individuale e di modificare le gerarchie valutative, in ordine al bene e al male, al vero e al falso.  Aggiunge, per sovrappiù, l’avvenuto passaggio dalla religione alla televisione  (dalla menzogna metafisica all’inganno mediatico), ovvero lo spostamento del motore della Storia dal cattolicesimo bimillenario all’edonismo di massa di recente invenzione (“Qui ci si ingozza di hamburger e patatine fritte, caldo / e freddo hanno la stessa temperatura, crollano alcuni record, / in certi luoghi del pianeta la vita umana / s’è disastrosamente allungata, perché in fondo / piangere i nostri morti se ormai siamo quasi immortali, / oggi intasco un assegno piuttosto paffutello, domani / vado a sciare, dopodomani in galera, è la nuova febbre dell’oro, la sacra fames, sapete…”, Tavola 1, sezione 3).

Di fronte alla decadenza spacciata per valore e alla morbosa e oscena ostentazione narcisistica di sé, alla poesia spetta di essere l’inferno: deve potersi infilare la coda, inalberare il forcone e fare a pezzi canoni e controcanoni, mettendosi di traverso, costringendo il lettore a prendere posizione e a non distrarsi (“Necessita alla poesia questa prosaccia buiaccàra, se / non si vuole che perfino gli animali meno dotati / ci accusino / di ridicola arroganza lirica, di supponenza / stupidamente febbricitante, in un momento che, vero ragazzi, meglio sarebbe forse chiudere la bocca / e tornare ad aprire i boccaporti / del pensiero che non gioca a nascondino / con le ombre”, Tavola 1, sezione 6).

Per non essere tagliato fuori dall’invincibile complessità del presente, Mario Lunetta raccoglie instancabile i materiali più disparati: schede, appunti, riflessioni, lacerti di oralità, inserti dialettali, citazioni, canzonette, termini di altre lingue, ragionamenti sillogistici, invenzioni da puro giocoliere della lingua (“Vedo bande e bandiere. Bandane. Banderillas / senza banderilleros – e senza tori Miura – e poi, sì, / la poca voglia di ridere / su quasi tutti i volti, gli ectoplasmi, le fotocopie / di facce mai esistite, junk shop universale”, Tavola 1, sezione 3”).

Non solo il Nostro non si chiama fuori dal brogliaccio della complessità, ma nemmeno dalla catastrofe in atto. Il suo sguardo rimane immersivo, orizzontale: non cede alla tentazione panoptica dell’occhio moralistico e giudicante. Si tratta della scelta anticonsolatoria di chi è abituato a portare se stesso al patibolo fra spicchi di nuvole e materia anarchica.

Mario Lunetta

  • 2. La forma dell’Italia si presenta come un libro superbamente scorretto, un intervallo prolungato di sarcasmi e ironie scorticate, un viaggio variegato nelle mete geografiche (Toscana, Lazio, Puglia, Sardegna) e negli interstizi della storia patria: una scorreria in lungo e in largo alla ricerca di una forma non intesa come esteriorità, perimetro, collante appiccicaticcio di una nazione slombata, ma essenza, slancio morale, dimensione etica. 

Se la ricerca di una forma credibile risulta vana, che si dia inizio alla danse macabre¸ che si rida a quattro ganasce tra gozzoviglie, giochi di prestigio, mercati, malumori e malaffari, mettendo in sequenza quadri scenici in cui si rincorrono confusamente inverecondi corporativismi, delitti di mafia, istanze politiche di destra e di sinistra che finiscono per assomigliarsi tutte.

Sic et simpliciter La forma dell’Italia assume i caratteri di una pièce teatrale (tale appare la drammaturgia coram populo del Nostro), una contesa fra due personaggi-metafora, il Capitale e l’Intelligenza.

Nella zuffa di scena il Capitale (ubuesco, manipolatore, seduttore) travolge ogni opposizione e si impone come l’avamposto della civiltà, l’avanguardia della tecnologia, dell’impresa e del lavoro. Si nutre del “bacillo della rimozione” e nasconde al pubblico le sue vergogne (il benessere per pochi, la povertà per molti, lo sfruttamento congenito, la distruzione indiscriminata delle risorse).

Placidamente assiepata sull’“albero del rimorso” l’Intelligenza sconta la sua inattualità, ovvero l’essere ridotta dalla cultura della massa a un movimento retrogrado della vita (nel circo Barnum planetario contano appena i bassi istinti, i desideri lascivi, il principio di piacere incoronato come sovrano dell’esistente).

Rimbalzando di scena in scena, di pagina in pagina lo scontro Capitale-Intelligenza esplode finalmente ad armi pari: l’Intelligenza con le sue movenze rapide e riflessive si mostra più reattiva, prova a scuotere l’Italia sonnambula, chiarendo quanto sia biasimevole una nazione attoscata, prona al potere corruttivo del denaro (“Dall’anima rapace del capitale, / nella giungla delle sue distinzioni, disparità, separazioni, cavilli, / arzigogoli, sofismi e sangue, su tutto / lo sconfinato ghetto che è la terra, dove l’Italia, ibrido / di liberi talenti e di sorrisi omogeneizzati, collere / e genuflessioni, intelligenze allegre e ipocrisie funeree, / a fatica si prova a caricare / la sua bombola d’ossigeno”, Tavola 1, sezione 4).

Scrittura lambiccata, dunque, secondo un’estetica dell’impoetico (fulgido cavallo di battaglia dell’Autore), frastagliata di pause e frammenti, di violente cesure e salutari digressioni, di continui cambi di tonalità e di voce: tutto questo per rendere giustizia all’Intelligenza, strumento d’eccellenza per saggiare le viscere di una nazione sempre pronta a dare il peggio di sé.

Da robespierrista tenace, Mario Lunetta aborre che l’Intelligenza intoni salmi, o canoni gregoriani negli stalli di un’abside, al contrario pretende da essa l’esercizio continuo di stonare, di spezzettare, di disgiungere e di includere l’inusitato (l’inoptum), evitando inutili e insulse svenevolezze liriche, e anche (per buona misura) la palude dell’elegia, nella quale l’Italia figura oleograficamente, per gli allocchi, come il Paese dell’espero e dell’incanto.

A detta del Nostro l’Italia nuota nel suo mare di sciagure, senza battere ciglio: l’accompagnano i suoi lacché di sempre (speranza, desiderio), mentre a debita distanza sono tenuti contraddizione e angoscia.

Perennemente distratta, avida di illusioni, abbagliata da progetti scadenti, alienata nel quieto vivere, l’Italia continua a nuotare, sbattendo da un golfo all’altro, incapace di stimarsi di più che il Paese dei cuochi e dei rubagalline (“Fatto sta che l’Italia / è ormai poco più di una sagra del Salsicciotto d’oro / incartato alla burina (carta stagnola e nastrino azzurro col fiocchetto). / C’è da temere che questa, questa appunto, / sia la sua facies verace perseguita per secoli, ora / finalmente realizzata, / felicemente conclusiva, stop, balbettata, esultata, evviva! Evviva!! /…/ La forma dell’Italia / dentro la sua forma sformata”, Tavola 2, sezione 11).

  • 3. La forma dell’Italia pende verso la presa diretta: vi prevale una scrittura colloquiale, un parlato aulico che si insuffla da sé (sotto gli occhi del lettore) come i golem, le statue d’argilla plasmate dal rabbino praghese Low. Così il serpentone poematico si snoda in lunghi versi filamentosi, rimati, assonanzati, allitterati, con l’ovvia preoccupazione di evitare il taglio su misura, la prosodia ingessata e funerea. Si inseguono in totale libertà i repertori più disparati, provinciali e cosmopoliti, di segno diverso dal contesto di provenienza (la salutare estraniazione brechtiana).

Per consolidare l’andamento da free jazz del suo poema, Mario Lunetta adotta un procedimento di dislocazione per piani, di ribaltamenti prospettici, di effetti di simultaneità, utilizzando come tessuto connettivo una ritmicità irregolare, un battere sincopato di accenti sulle parole, costringendole a dire ciò che di solito dissimulano. Sotto il profilo timbrico emergono stridori, spigolosità, asprezze: suoni acuti alternati a momenti di minore tensione emotivo-riflessiva.

L’Autore ritorna alle origini del gesto artigianale, riassesta l’espressione sull’asse di una rigorosa oggettività, mettendo a tacere le gelosie dell’Io, il despota, che vorrebbe la scena tutta per sé, da monologante indefesso, non considerando minimamente le opportunità di comunicazione, di incontro, di scambio che offre il dialogo (se dipendesse dall’Io la poesia sarebbe argilla da plasmare, ma piena di chiodi).

Facendo leva costantemente sulla deformazione, sulla variazione, sullo scardinamento, sul disincanto, Mario Lunetta trasforma la pagina scritta in un campo di forze: montaggio e affastellamento di codici, assemblaggio e collisione di lessicografie.

In questa prospettiva radicalmente relazionale i testi diventano una fucina di senso che non può essere colto con la linearità e la semplificazione (“Che esperanto di minchiate, l’Italia. Che forma / deformata del sonno, incubi idioti, chiacchiere malrecitate. / Ecco perché, alla fine, in questo teatrino universale làtita / anche il teatro, oltre che / la verità possibile, le possibili verità, le ipotesi / meno gaglioffe: / Làtita il senso della totalità, il gusto / dell’avventura collettiva. Cosa làtita ancora? Ora / che la Semplificazione, vorrei ricordare, / è il nuovo vangelo e la Complessità roba scaduta, / da parrucconi, superata, estinta. Evviva!”, Tavola 2, sezione 11).

La struttura poematica (aperta, inconclusa, multipolare) viene esposta a una radicale antitesi con la gerarchia dei generi ancora in auge, inoltre viene mossa a disgregare le cristallizzazioni storiche per far emergere il rimosso dell’intera civiltà italica. Dal canto suo l’Autore con le sue spinte vitalistiche e pagane sgomita per andarsene alla deriva in una sapida esperienza di nomadismo intellettuale.

  • 4. A proposito di questo poema debitamente finito che non finisce, sembra di trovarsi in un teatro di macchine semoventi, su e giù per le quinte tra armature barocche e bendaggi vagamente ortopedici (la difficoltà di deambulare equivale all’impossibilità di dare una forma all’Italia). Ci si trova di fronte a una specie di esoscheletro poematico, un plinto molto resistente, cavo all’interno, ma capace di sostenere con i suoi incastri perfetti la struttura del reale (“Bisogna sapere / anche dopo l’ultima sconfitta che / la fase delle sconfitte non è / probabilmente esaurita – e pensare, riprendere a pensare / al presente dentro il presente, / prima che a un dopo / che potrebbe non arrivare mai”, Tavola 2, sezione 8).

Non so se ce ne rendiamo conto, ma senza il paradosso Lunetta, senza le sue trafitture e i suoi sarcasmi contra politicantes saremmo al Miserere. Miseri noi, se ci rassegnassimo al perenne stato d’accusa dell’Intelligenza e al vanitoso lucrare a quattro palmenti del Capitale.

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