Le illuminazioni di Giulia Niccolai, con e senza flash

di Giovanni Fontana

Di sofferenza

ne ho a sufficienza

ma ho sempre fame

di conoscenza[1]

Giulia Niccolai, 1934-2021

La madre di Giulia era un’americana che non aveva mai voluto imparare l’italiano. Forse per questo Giulia parlava così bene l’inglese. A partire dagli anni ’80 mette a frutto questa sua conoscenza occupandosi di traduzioni, soprattutto di Gertrude Stein, Virginia Woolf e Dylan Thomas. Una pronuncia perfetta. Ma molto all’americana. Conosceva inoltre il tedesco e il francese. Un effetto eco del suo inglese le risuonava in bocca anche quando parlava italiano. Motivo per cui nella sua poesia tanta parte ha occupato il plurilinguismo o il gioco esilarante sulle espressioni idiomatiche, sulle ambiguità terminologiche, sulle omofonie e su tanti ironici artifici di derivazione lessicale. Una delle più note composizioni che rispondono a questa tipologia è senz’altro Harry’s Bar Ballad, del settembre del ’77, tutta costruita sul confronto dei vocabolari, che vale la pena riportare integralmente per richiamare subito la brillantezza e l’humor di Giulia:

            È sempre imbarazzante per un tedesco chiedere

            zwei dry martini

            potrebbe chiedere

            zwei martini dry

            ma se chiede

            zwei martini dry

            gli danno i martini senza il gin

            È costretto a berseli?

            No

            perché lui e sua moglie

            vogliono zwei dry martini

e NON zwei martini dry

Potrebbe chiedere

zwei mal dry martini

che tradotto in italiano diventa

due volte tre martini.

Allora gliene danno sei.

Sei un bevitore di dry martini?

Fanno diciotto.

Sei, sei dry martini?

Sei più sei dodici

sei per sei trentasei?

Non voglio né dodici né trentasei martini

voglio del gin perché sono G.N.

Giulia Niccolai.

Des dry martini! Neuf!

Pas des vieux bien sûr madame…

Anche un americano che chiede

nine dry martini

corre il rischio di non riceverne neanche uno

se il barman lo prende per un tedesco.

Dix dix dry martini!

Non je dis pas je dis pas je dis pas![2]

Ma subito, fin da Humpty Dumpty (Geiger, Torino, 1969 – primo libretto della collana ‘Geiger Poesia’, stampato a Roma pochi mesi dopo la chiusura di “Quindici”) Giulia aveva giocato con le parole rispecchiandosi nelle atmosfere visionarie e strampalate di Alice in wonderland con spiritosi nonsense lineari o in termini concreti e visuali, come, per esempio, in Juggler, dove le lettere, con differenti corpi e caratteri, sono disposte sulla pagina mimando un esercizio d’equilibrio, o in The Cheshire Cat’s grin, dove la parola «cheese» prolunga il suono vocalico centrale su una collana di ben tredici «e» e s’incurva assumendo la forma di uno smagliante sorriso: proprio come quello magico dello Stregatto di Lewis Carroll. Giulia fa fare plurimi rimbalzi alla «o» in To bounce oppure serra allo spasimo i caratteri in Impenetrability, specchiando il concetto di impenetrabilità nel suo corrispettivo grafico.

Giorgio Manganelli, nella prefazione a Harry’s Bar e altre poesie,1969-1980, scrive: «Come Carrol, la sciura Giulia sa che è tutta una faccenda di parole, e che le parole si scrivono, e scrivendole si possono incrociare, innestare, tagliare, topsy-turvare, tailare, addietrare, disavanzare. E le parole, neh, le parole […] sono il mondo […]»[3].

Ma, prima di immergersi a pieno nella sfera delle parole e varcare la soglia della poesia, giovanissima, Giulia inizia a praticare la fotografia diventando ben presto un’apprezzata professionista, dapprima lavorando per pubblicazioni illustrate, soprattutto libri-strenna, poi fornendo reportage alle agenzie di stampa. Viaggia in Europa. Vive in Egitto per un incarico che dura due mesi. Si trasferisce per un periodo negli Stati Uniti, da dove lavora per corrispondenti italiani.

Tornata in Italia, particolarmente interessata alla sperimentazione artistica e ai nuovi fermenti culturali, si affaccia sulla scena del Gruppo 63. Lì condivide «la lezione sprovincializzante, l’effetto tabula rasa sui vecchi linguaggi»[4]. E decide di misurare la sua esperienza visiva su un esperimento letterario, che tiene conto delle esperienze narrative più aggiornate, tra le quali quella dell’école du regard. Nel 1966, infatti, pubblica da Feltrinelli il romanzo Il grande angolo,dove proietta la sua avventura professionale non solo in chiave biografica, ma anche sul piano linguistico e strutturale, impegnando nella narrazione sequenze analitiche che sembrano provenire direttamente dallo sguardo lucido dell’obiettivo di una fotocamera, che spazia con un grande angolo, ma sa anche inquadrare il dettaglio da cui estrae senso e ragione. Proprio come nella scena invernale della spiaggia di Coney Island, maculata di neve, dove un nugolo di gabbiani ruota intorno all’uomo che dà loro del pane. Lo prendono dalle sue mani. Poi, in un gesto, «la manica del cappotto gli scopre un pezzo di braccio sopra il guanto. Sulla pelle del polso c’è un numero. Tatuato».

La protagonista del romanzo, per passione o per istinto, per calcolo o per vizio professionale, sembra scoprire la realtà solo attraverso l’obiettivo, con il quale osserva anche ciò che è invisibile ad occhio nudo, come lo spessore dell’aria, i suoi tremolii, i veli di calore e le differenze di temperatura. E ci sono gli elenchi che riguardano operazioni tecniche, con terminologie accurate, indicazioni di passaggi e relative considerazioni che assumono valore di sequenza cinematografica, o successioni di note d’agenda, appuntamenti e pro-memoria che acquisiscono spessore narrativo, anche quando sembrerebbero non averne. Spesso è proprio il dettaglio a inaugurare un piano sequenza o a innescare giochi di connessioni che procedono sollecitando interesse e sviluppando senso. Un po’ come accadrà poi nei Frisbees, dove un nonnulla diventa un’esca per far funzionare il cervello[5]: un nome, un’assonanza, un’omofonia, una foto, una data, un oggetto, un film, un titolo di giornale, un annuncio nella vetrina di un negozio, un manifesto, un graffito, un equivoco, una somiglianza, una telefonata costituiscono spunti per tirare conclusioni di taglio filosofico, addirittura sapienziale, ma passando per diverse vie. Sono molteplici, infatti, le sollecitazioni che attivano i collegamenti. Può essere uno stimolo giocoso, un giudizio, un automatismo: «a mia insaputa / sto cominciando a praticare / la scrittura automatica surrealista / oppure / la scrittura automatica surrealista / sta cominciando a praticare me». Talvolta il pretesto serve ad attraversare scherzi cabalistici, analizzando cifre o sposando magiche congetture, come nel caso del Fairy Ring dell’aeroporto di Shannon; talvolta invita a risolvere piccoli enigmi gialli, come quello del signore che sbaglia il numero di telefono, 461279 invece di 461280: «Riattacchiamo ma io resto lì a chiedermi come fa uno / che vuole comporre il 461280 a fare invece il 461279»[6]. Una ragione c’è, e Giulia la scopre: «visualizzando il telefono, mi rendo conto cheil 7 viene subito prima dell’8 e il 9 prima dello 0. / Dunque è possibile. / Ma quel signore ha sbagliato due volte». Dunque il signore non ha sbagliato numero, bensì sbagliato numeri.

Con un numero di telefono ho avuto l’onore di entrare in un frisbee anch’io: «(Paul, il vecchio numero di Gianni Fontana / non risponde perché ne ha uno nuovo. / Spatola è difficile che chiami / perché non ha telefono)»[7]. Il suo è sempre un gioco eloquente, mai gratuito, anche quando passa per il nonsense. Indugia sul paradosso, sulla contraddizione. Si compiace di fronte ad una «poesia trovata», ma con spirito duchampiano, che nel suo caso è allegramente paradossale e raffinato. Sembrerà strano, ma dietro quella leggerezza, che sembra favorire l’immediata dissolvenza in una bolla fatua, seppure costruita con eleganza, c’è sempre un rovescio che segna tracce e rimanda a qualcosa d’altro in una perenne schermaglia tra significante e significato, che apre spazi nuovi, a sorpresa, come dietro lo specchio di Alice; ma dove la dimensione onirica è sostituita da trasfigurazioni. In ogni caso si tratta sempre di illuminazioni generate da un modo di guardare la realtà con un occhio particolarmente sensibile, mai superficiale, né assuefatto alla convenzionalità.

Sempre pronta ad annotare su qualunque supporto gli capitasse sotto mano al momento, fosse la pietra del tavolo della cucina o un tovagliolino di carta in un bar, non voleva lasciarsi sfuggire nulla di ciò che le accadeva intorno: «Persino i “Zwei Dry Martini” sono stati ordinati da un signore tedesco seduto accanto a me all’Harry’s Bar di Venezia»[8].

Non è azzardato dire che con i frisbees Giulia inaugura un vero e proprio genere poetico: strutture scarne, ma rivelatrici, talora estremamente esili, ma immersive, di taglio autobiografico, ma senza la presenza di un «io» ingombrante, non cantabili ma zeppe di voci e di suoni, episodiche, ma proiettive, isolate dalla sfera privata per divenire misura di quella pubblica, sgranate in una catena di riflessività, ma disponibili a proporsi come isole di saggezza: situazioni di apparenza comune viste «in un flash nel terz’occhio e dunque, come in una polaroid interiore»[9], quali identificazioni virtuose o coincidenze profetiche.

Già Franco Tagliafierro riconosce che in questa sua avventura della mente e del linguaggio Giulia Niccolai «si inoltra con la consapevolezza di aver trovato un modo di fare poesia che è solo suo, e di non dovere nulla né a padri nobili né a compagni di sperimentalismo. Un modo talmente singolare da farci apparire come variazioni del già noto anche i migliori esiti della ricerca poetica di quegli anni»[10].

Del resto è la stessa Giulia che avverte tale caratteristica del frisbee: un genere! E ciò appare con trasparenza in questi versi: «[…] Mario Lunetta / che mi scrive per ringraziarmi della plaquette, / non abita più in Via Accademia dei Virtuosi / bensì / in Via Accademia Platonica. / (Quando ho letto il suo nuovo indirizzo sulla busta non ci credevo. Ero convinta che si trattasse di un suo Frisbee[11].

Festival «Oggi Poesia Domani» Fiuggi, 1979: Franco Capasso, Giulia Niccolai, Giovanni Fontana, John McBride, Paul Vangelisti

Giulia nasce a Milano il 21 dicembre del 1934. A Roma instaura un buon rapporto con Adriano Spatola e con lui inizia a lavorare nella redazione di “Quindici”. Successivamente, con una buona esperienza sulle spalle, contribuisce al lancio di “Tam Tam” dopo l’arroccamento al Mulino di Bazzano. Di Adriano fu compagna e collaboratrice preziosa e infaticabile.

Con lui visse per undici anni. In una sua lettera del dicembre 1989 a me indirizzata scrisse: «Quando penso a noi in quegli anni, vedo, come in una scena di Papillon, due ergastolani alla Cajenna, legati alla stessa catena, intenti a spaccare pietre. Abbiamo faticato come negri»[12].

Quelli del Mulino furono anni importanti per Giulia, per Adriano e per molti poeti che vollero condividere le loro esperienze sfidando le convenzioni da un lato e l’intransigenza dogmatica, addirittura integralista, di coloro che non riconoscevano valori ad una creatività non asservita all’ideologia.

A proposito del laboratorio del Mulino e di Adriano, Giulia Niccolai affermerà più volte: «molto di quanto ho imparato sul fare poesia l’ho imparato lavorando con lui dal ’68 al ’79, prima a Roma e poi nella cucina di Mulino di Bazzano, alla “cucina” di “Tam Tam”»[13]. Ma, a conti fatti, è facile constatare che seppe trovare immediatamente una sua strada, personalissima, inconfondibile.

Giulia scopre la poesia con occhio fotografico, fissandosi, da un lato, sugli oggetti, di cui svela i dati formali, materiali, oltre che simbolici; dall’altro sulle situazioni, perfino su piccoli eventi apparentemente insignificanti, estraendone al volo le coordinate, afferrandone i dettagli verbali, lacerti di conversazioni, come si trattasse di istantaee. Isola i particolari sublimandone il senso e il nonsenso. In questa dimensione assumono grande valore il gioco linguistico, la visione duchampiana e il divertissement di stampo dadaista. Ecco, per esempio, che nel suo Poema & oggetto (Geiger, Torino 1974), la parola «poema» germoglia in un «poemalfabeto», appare in «cinque appunti per un testo» realmente appuntata con cinque spilli, uno per ciascuna lettera, spicca in «un’agenda per un testo» composta sulla prima pagina di una vera agenda, dove sono utilizzate le corrispondenti lettere strappate all’indice alfabetico della scalettatura sul margine laterale della rubrica, oppure si evidenzia con il titolo «scultura» in tutta la sua qualità plastica, dattilografata su un foglio accartocciato che spunta dal rullo di una macchina da scrivere.

Il gusto per il gioco di parole trova felicemente spazio nelle sue composizioni concrete, come nella texture realizzata iterando la parola «whole» (intero), dove l’assenza di due «w» crea due buchi, in inglese, appunto, «hole», o come in quella composta con la parola «knit» (lavorare a maglia), che, scritta in dritto e rovescio come in un classico lavoro ai ferri, grazie ad una sostituzione di vocale, lascia apparire sul finale la parola «knot», il «nodo» che ferma e chiude il tessuto sferruzzato, oppure come l’alternanza, in successione scalettata, delle parole «steep» (in verticale) e «step» (in orizzontale), dove il numero di vocali fa la differenza («steep=ripido» e «step=gradino, passo»), che dà come risultato il disegno di una scala piuttosto acclive che, nell’intercalare delle parole, suggerisce anche il rumore dei passi. In tutti questi casi la parola si fa immagine e l’immagine diventa parola.

Altri aspetti della visione sono trattati in Facsimile (Tau/ma 5, 1976) dove Giulia parte «dal presupposto che il medium fotografico corre parallelo alla realtà senza mai incontrarla».

Il distacco dall’immagine grafica e fotografica avviene con Dai Novissimi (1970-72) e Sostituzione (1972-74), dove opera chirurgicamente su testi preesistenti, e con Greenwich (1971), dove compone testi utilizzando esclusivamente nomi di città (ma anche di altri nomi geografici, fiumi, laghi o montagne) come nomi comuni. A proposito della tecnica adottata, Giulia scrive: «Questi nonsenses sono stati composti, materialmente, secondo un programma concepito a tavolino, ma credo che la loro provenienza più ovvia sia rintracciabile nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti. Chi, ipnotizzato dalla noia, non si è mai messo a leggere e a rileggere i tabelloni degli Arrivi e delle Partenze finendo col dare alle colonne di nomi il confortante ritmo delle filastrocche? Greenwich è dunque una specie di viaggio non nei territori del linguaggio ma nel linguaggio dei territori»[14].

La composizione forse più nota è quella dedicata a Charles Aznavour e Adriano Spatola: Come è trieste Venezia, dove Venezia è impegnata nel ruolo di sé stessa.

Igea travagliato

trento treviso e trieste

di disgrazia in disgrazia

fino pomezia.

Como è trieste Venezia…[15]

La tecnica costruttiva è talmente spassosa da contagiare perfino il prefatore Giorgio Manganelli che esordisce scrivendo: «Che cos’è una mantova? Corre, uccide, teme il freddo, è violacea e ossuta, si lagna come la piacenza, svola come la vicenza, gloglotta come la pienza? Qualcuno, di notte, ha mai incontrato in mezzo agli infidi vercelli, banda taciturna, trasparente, la garza omicida dei chieti? Non fissate negli occhi l’ottuso viterbo […]»,[16] e così via.

La particolarità di questi testi è quella di prestarsi facilmente alla gag fonetica, che Giulia ha praticato a pieno, con gran divertimento dell’audience, in numerose occasioni. Ma oltre ai nonsense di questa serie, Giulia ha proposto in performance anche composizioni giocate sul puro gusto della vocalità, organizzando un originale repertorio destinato alla scena della poesia sonora internazionale. Aderì al gruppo Il dolce stil suono,[17] contribuì all’audiorivista Baobab[18] e ad altre testate internazionali di poesia sonora, partecipò alla registrazione dell’Hommage à Eric Satie di Spatola per il progetto Futura[19] della Cramps di Gianni Sassi. Di quel repertorio facevano parte composizioni lineari nelle quali esaltava l’effetto fonetico, come in Toti Scialoja Ballad[20](1978), oppure pièces completamente astratte come Conversazione[21](1979), dove articolava incomprensibili suoni concitati in una sorta di grammelot che mimava uno scambio di battute tra personaggi femminili e maschili, o come Non ho niente da dire[22] (1982), dove il dire di non aver niente da dire diventava l’unica materia del poema sonoro.

Questo tipo di lavoro va avanti fino al momento della sua crisi esistenziale. Quelle che confluiscono sul versante dei Frisbees sono sonorità di altro tipo. Si tratta di voci del quotidiano, di flash scattati con disinvoltura e lanciati nello spazio creativo con ironia sottile, in piena libertà. Scrive Giulia: «Volevo sentirmi talmente libera da poter dire ogni cosa»[23].

I Frisbees, poesia da lanciare ebbero una storia difficile. Composti nel 1985, rimasero nel cassetto fino al 1994. Non fu affatto facile effettuarne il lancio. Giulia ricorda con amarezza le «porte sbattute in faccia» da Garzanti e da Mondadori, che si erano impegnati a pubblicarli. Il secondo addirittura con un contratto. Ma il libro fu rifiutato anche da altri. Per esempio da La Tartaruga. Ce lo ricorda Giulia proprio in un frisbee scritto dopo il diniego[24]. Ma le frustrazioni derivanti dal rifiuto degli editori erano piccola cosa nel clima generale della «vera discesa agli inferi» avvenuta per un terribile cumulo di concause nel periodo tra gli anni ’83 e ’85, culminato con un ictus cerebrale che le tolse la parola. Fu un momento fortemente drammatico da cui uscì spossata e depressa, ma con un barlume di speranza acceso dall’incontro con i Lama tibetani, che l’aiutarono a ritrovare la serenità. Divenne buddhista e nel 1990 fu ordinata monaca nella scuola Gelupta del Buddhismo tibetano Mahayana.

Giulia si è spenta il 22 giugno e lascia un immenso vuoto.

Nelle pagine di Esoterico biliardo dedicate al Mulino, scrive: «“Rinunciare al mondo” (queste parole così definitive e drammatiche), è ciò a cui aspira una monaca, anche una monaca buddista. Seguendo il metodo che mi è stato insegnato dai Lama tibetani per perseguire questo scopo, si diventa man mano consapevoli del fatto che ciò a cui si sta in realtà rinunciando, è la sofferenza.

La pratica spirituale richiede una grande accumulazione di energia positiva che ci permette poi di affrontare con serenità problemi, ostacoli, interferenze; ci distoglie dall’ossessione di realizzare a ogni costo i nostri desideri, e nel viverne le diverse fasi di formazione, ogni giorno si arriva a comprendere con maggior chiarezza che lo splendore della vita è solo nella mente! Cioè dentro, non fuori di noi»[25].

Giulia, infatti, era anche la poetessa che scriveva:

«Lasciatemi divertire»

diceva Palazzeschi

in momenti

come questi,

mesti.[26]

Copertina del disco “Dolce Stil Suono” – design di Giovanni Anceschi

[1] G. Niccolai, Frisbees (poesie da lanciare), cit. p. 131-132.

[2] G. Niccolai, Russky salad ballads & Webster poems, Geiger, Torino, 1977, pp. 26-27. Poi in Harry’s Bar e altre poesie,1969-1980, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 137-138.

[3] G. Manganelli, Prefazione a G. Niccolai, Harry’s Bar e altre poesie,1969-1980, cit. p. 11.

[4] G. Niccolai, Autodizionario degli scrittori italiani, Leonardo, Milano 1990.

[5] G. Niccolai, Frisbees (poesie da lanciare), si chiude con questi versi: «All’inizio / mi sono augurata / che i Frisbees / mi aiutassero / a far funzionare il cervello / in modo nuovo. / Cosa è cambiato? // Adesso ho più paura di prima». p. 122.

[6] G. Niccolai, Frisbees (poesie da lanciare), cit. p. 73.

[7] G. Niccolai, Frisbees (poesie da lanciare), pp. 13-14.

[8] G. Niccolai, Frisbees (poesie da lanciare), Campanotto Editore, Pasian di Prato, 1994, p. 103.

[9] G. Niccolai, Esoterico biliardo, Archinto, Milano 2001, p. 88. Giulia inizierà a prendere coscienza del senso profondo delle impressioni di questo tipo durante il suo ritiro nel monastero bubbhista di Sera Je nel sud dell’India.

[10] F. Tagliafierro, Da un’avventura all’altra dello stile, in appendice a G. Niccolai, La Misura del Respiro poesie scelte, Ed. Anterem, Verona 2002.

[11] G. Niccolai, Frisbees (poesie da lanciare), cit. p. 117.

[12] G. Niccolai, Lettera a Giovanni Fontana, in “Avanguardia”, n. 30, anno 10°, 2005, p. 84. Poi in parte ripresa in G. Niccolai, Gli anni del Mulino [novembre 1996], nel volume Esoterico biliardo, Archinto, Milano 2001.

[13] G. Niccolai, Esoterico biliardo, Archinto, Milano 2001, p. 90.

[14] G. Niccolai, Greenwich, Geiger, Torino, 1971. s.n.p.

[15] Ivi. Poi in G. Niccolai, Harry’s Bar e altre poesie,1969-1980, cit. p. 95.

[16] G. Manganelli, Prefazione a G. Niccolai, Greenwich, cit.

[17] Costituito nel 1979, con Sergio Cena, Agostino Contò, Giovanni Fontana, Milli Graffi, Arrigo Lora Totino, Adriano e Tiziano Spatola.

[18] Baobab – Informazioni fonetiche di poesia, fondata da Adriano Spatola, è pubblicata a Reggio Emilia grazie al sostegno dell’editore Ivano Burani.

[19]  Futura, a cura di Arrigo Lora Totino, box con 7 LP 33 rpm, Cramps Records, Milano, 1978.

[20] In Baobab n. 1, Edizioni Pubbliart Bazar, Reggio Emilia, 1978.

[21] In Baobab n. 3, Speciale “Oggi Poesia Domani”, Edizioni Pubbliart Bazar, Reggio Emilia, 1979.

[22] In Baobab n. 11, “Baobab Femme”, Edizioni Pubbliart Bazar, Reggio Emilia, 1982.

[23] G. Niccolai, Quarantasette anni più tardi, nota aggiunta alla seconda edizione di Il grande angolo, Oèdipus, 2014.

[24] G. Niccolai, Frisbees (poesie da lanciare), cit. p. 76.

[25] G. Niccolai, Esoterico biliardo, cit. p. 96.

[26] G. Niccolai, Frisbees (poesie da lanciare), cit. p. 91-92.

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