Diario d’autore (19): note random su P. Morelli; “Past Lives”; F. Del Moro; N. Maroccolo; A. Ricci; Biden-Trump; democratura / dittatura; venti di guerra

 

di Marco Palladini

La “grande confusione” Sragionamenti sull’anarchia (Italo Svevo, 2023) di Paolo Morelli è un volumetto che ho letto con piacere e vero interesse per il suo filo argomentativo acutamente spiraliforme e per il suo sragionare fortemente raziocinante su un tema, quello appunto dell’anarchia, considerato non tanto sotto il profilo di una visione politica, che pure emerge, quanto dal lato di una irriducibile volontà di perimetrare la propria autonomia intellettuale, critica e individuale, insofferente e ribelle ai dettami standardizzati e massificati del moderno vivere collettivo, ciò che appunto oggi risulta un atto di rivolta o di contestazione anarcoide guardata con disprezzo o commiserazione oppure con astio dalla maggioranza per nulla silenziosa, anzi rumorosissima della opinione pubblica e dai varî poteri sistemici. Così, per più di un verso l’anarchico di Morelli mi ha fatto pensare da un lato all’Unico di Max Stirner per una comune pulsione ad una libertà completa che può darsi soltanto liberandosi dal dominio dello Stato e dal cogente stato delle cose; e dall’altro lato all’Anarca di Ernst Jünger, un figura che appare nel suo romanzo Eumeswil, e che irraggia la volontà di totale sovranità dell’individuo che rigetta ogni sottomissione al potere e alla società, e che cerca un comandamento cosmico per giungere ad una padronanza esemplare di se stesso, rigettando ogni dipendenza da fedi o ideologie per il raggiungimento, pure qui, di una libertà senza se e senza ma.          

Il libro è, comunque, difficilmente riassumibile nella sua ricchezza ‘sragionativa’ ed è, del pari, difficilmente catalogabile, oscillando di tra un saggio, un pamphlet e una, non celata, dimensione autobiografica, attraverso un tono discorsivo non di rado ironico e ammiccante nelle sue multiple digressioni. Con tanto di “sconfessione” finale a sorpresa, che sembra voler ritrattare tutto o quasi tutto quello scritto precedentemente in direzione della affermazione di uno “stato mentale anarchico”. Come se uno scrittore sofisticato come Morelli intendesse dimostrare che una prassi di autocontraddizione è il miglior modo per ostendere una autentica concezione anarchica.  

Non dimenticando che Morelli è studioso e traduttore di opere filosofiche cinesi e che ha firmato per Nottetempo nel 2004 Er Ciuanghezzù (ner paese der Gnente), riversando il poema sapienziale Chuang Tzu in romanesco, quello che ho forse maggiormente apprezzato nel suo libro è la confricazione tra visioni occidentali e visioni orientali che, sulla scia del taoismo e della pratica dei koan, aiuta a decostruire il pensiero mainstream qui prevalente e a fare piazza pulita del mondo di false certezze in cui abitiamo. Ciò che mi sembra una ecologia della mente assai utile e necessaria.

Chiudo allora con una preziosa citazione che lo scrittore romano riprende dal maestro Zhuang “… uno degli anarchici eminenti da quando c’è aria, nel libro omonimo ci dice al riguardo: «Al mondo, tutti sanno cercare ciò che ignorano, ma nessuno sa cercare ciò che già sa. Tutti sanno disapprovare ciò che non approvano, ma nessuno sa disapprovare ciò che approva. Di qui la grande confusione»”.

Siamo, dunque, confusi perché non sappiamo smentire noi stessi? Risiede qui la duratura e sostanziale verità dell’anarchia?   

“Inyeon” ► Vedendo un ottimo film, Past Lives (2023), della regista coreana-americana Celine Song, si apprende il significato della parola coreana inyeon, più o meno traducibile come provvidenza o destino. Un termine derivato dal buddhismo dove con in si richiama la “causa diretta” e con yeon la “causa indiretta” di una determinata situazione. Past lives è una pellicola filosofico-sentimentale che ruota attorno ad un amore sospeso, irrealizzato e probabilmente irrealizzabile tra due soggetti che si incontrano a 12, a 24 e a 36 anni. Due ragazzini coreani, Hae Sung e Na-Young, che si separano, perché lei con la famiglia si trasferisce in America cambiando il nome in Nora Young, e si rincontrano poi da adulti, interrogandosi ora con malinconia, ora con pensieroso pathos sulle vite passate, su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato e su ciò che potrebbe ancora essere se quella presente fosse una vita passata, senza comunque riuscire a trovare una risposta. Forse perché il punctum è quello che Nora illustra al futuro marito Arthur, un giovane scrittore ebreo incontrato in una residenza di artisti: “Inyeon-destino è sempre in divenire e in azione, persino quando due sconosciuti si incrociano per strada e i loro vestiti si sfiorano accidentalmente, perché significa che deve esserci stato qualcosa tra loro nelle loro vite passate. Se, poi, due persone si sposano, dicono che è perché ci sono stati 8.000 strati di inyeon nel corso di 8.000 vite”.  

Mi sembra bella questa idea di una genealogia di migliaia di vite passate che in qualche modo sovradetermina la nostra vita presente. Forse questa idea non è vera e ci disturba, perché il nostro individualismo di occidentali reclama il libero arbitrio, o forse invece i buddhisti coreani la sanno assai più lunga di noi, e sanno contemplare l’impasto di vita caosmotica da cui si generano e si interfacciano le innumeri vite dei singoli. Pensiamo di essere originali ed unici, ma forse anche secondo la filosofia dell’eterno ritorno i nostri gesti, i nostri atti, le nostre parole sono stati ripetuti identici miriadi di volte prima di noi. Da questo punto di vista inyeon può essere riguardato come una poetica avvertenza critica per l’esserci di tutti noi.      

Letture – 1 ► Nel marzo 2022 avevo pubblicato, qui su L’Age d’Or, una nota critica concernente Ex madre (Arcipelago itaca Edizioni, 2022) di Francesca Del Moro, sottolineando che «… non è una ‘semplice’ raccolta di versi. È un libro ove risuona una voce atrocemente e lucidamente sofferente che si leva da una trincea d’anima come giunta al grado zero del dolore di una genitrice, il cui figlio ha deciso a soli vent’anni di togliersi la vita. Dichiara Del Moro: “Ex mamma / ho subito pensato / quando ho letto quel post / di auguri al neo papà”. Nondimeno, mi viene a mia volta di pensare che non si smette mai di essere ‘mamma’, anche dopo il suicidio di un figlio: si diventa madri di un figlio ‘ex vivo’, riconoscendo che “Un figlio lo contieni sempre / e ogni minuto io contengo, / ogni minuto sento dentro / mio figlio che muore, / mio figlio che decide di morire”. E da qui, da questo nuovo status oramai immutabile, da questa ferita immedicabile nasce la determinazione di scrivere pagina dopo pagina, testo dopo testo, un libro poetico che è il principio di una elaborazione in versi del lutto, un tentativo di oggettivare il dolore di un vuoto obiettivamente incolmabile, nel momento stesso in cui l’autrice è gravida di tutto il pathos/thanatos del figlio che non c’è più».

Adesso Del Moro, poetessa di nascita livornese (1971), ma abitante a Bologna, pubblica L (Gattomerlino, 2024) dove prosegue con implacabile sofferenza e incisiva, potente chiarezza espressiva una elaborazione del lutto che, forse, non si potrà mai compiere del tutto. “L come luglio, come lutto. / Come Lorenzo, come luce. / Tentare il cammino / andare avanti / dopo la caduta”.  

I suoi versi sgorgano copiosi, dolorosi e lucenti come una lama che rigira nella ferita immedicabile del suo essere ex genitrice, che poi vuole dire madre astrale sempre e per sempre. In questo “andare avanti” la scrittura è una terapia? Un’auto terapia? Non lo so, non credo, ma la scrittura forse riesce a oggettivare il dolore per poterlo rimirare e, almeno un po’, distanziare da sé: “Ho messo / la sua elle al collo / la accarezzo / mille volte al giorno / è il mio segno di pace”; “Vennero in molti / all’inizio / a vedere il prodigio. / La morta / che apriva la porta / sedeva e parlava / ‒ e piangeva, ovviamente ‒ / versava il vino / faceva il caffè”; “Non ho più parole / oltre la sua morte / né parole / che non cerchino amore. / Ho un equilibrio / da dosaggio chimico / la scrittura / come via di fuga”.

Francesca nei suoi versi si mette tanto spietatamente quanto lucidamente a nudo: con la morte di Lorenzo in più di un senso è morta pure lei, nonostante gli psicofarmaci la tentazione di farla finita è sempre presente, neppure tanto sottotraccia, ma c’è qualcosa o più di qualcosa che reclama e chiama alla continuità della vita nonostante tutto.    

Da questo punto di vista in L, tra tante, due cose in particolare mi hanno colpito perché entrambe contribuiscono a trattenere Del Moro dallo scivolare nell’abisso. La prima è la sua posizione di madre che è anche una figlia e che promette a sé stessa di non costringere la propria genitrice a vivere il suo medesimo incubo: “Non ho più forza / stasera, non ho fiato. / Così smetto / di parlare con mia madre / della cena, del weekend / dei rincari, della tinta per capelli. / ‘Io sto aspettando solo di morire’ / dico. ‘Lo so’ risponde / e non aggiunge nulla.”; “… e pensavo a mia madre / alle sue lunghe ore / di attesa e terrore / il suo unico scopo / vedermi sopravvivere / il mio unico scopo / non farle del male”.   

La seconda è che Francesca ha trovato, negli ultimi anni, un uomo che la ama totalmente, saldo come una roccia, che lenisce i suoi momenti di vuoto e di sgomento, nel cui amore può trovare la forza di credere che c’è ancora vita oltre la morte: “Lui addolcisce la strada / alleggerisce il cuore / nel ritorno a casa. / Pochi passi in più e trovo / la sua luce accesa. Lui esce con un sorriso / e una buffa maglietta. / Io scrollo il dolore / con una risata.”; “Lui sa / cosa mi pesa sulla nuca / mentre fingo di dormire / pancia sotto. // Si avvicina piano piano / la massaggia con due dita / mi dà un bacio con lo schiocco.”; “Lui vede sempre / il velo che scende / sui miei occhi / improvvisamente. / Mi dice ‘Ehi’ / mi prende la mano. / Lui sa / dove sto andando / mi trattiene”.

Francesca Del Moro

È un libro necessario L perché fonde vita e scrittura con una intensità quasi insopportabile, vieppiù intramato di dodici sogni che si cadenzano talora con scenari da incubo come in Shining di Kubrick: “A letto coi miei genitori / ci facciamo coraggio. // Un bimbo urla / da un buco nel muro / lo squarciano le lame. // Ci addormentiamo / sotto un’onda di sangue.”; “Un buio di scale, una porta. / Tiro il bambino a me / ma lui vuole entrare / nella casa del padre. // Mi sveglio e la collana / si attacca alla gola / mi strozza”. Gli inferni onirici sembrano quasi confondersi con il testo terminale del libro “Reversibile”, l’unico lungo (quattro pagine) che torna ossessivamente e diacronicamente su quella mattina del 5 luglio, quando una telefonata ha cambiato irreversibilmente la vita di Francesca. Eppure, questa vita svuotata, come direbbe Raffaele La Capria ferita a morte, nel momento che si consegna alla poesia, è come se rinascesse pertinacemente in ogni composizione. La poesia è allora, forse, in ultima istanza, un modo per accettare di convivere con la propria devastazione interiore.

P.S. – Dopo la lettura ho inviato a Francesca una mail per ringraziarla. Si dirà: e perché? Perché leggendo d’un fiato il suo libro, ho capito che pure io devo scrivere un libro necessario. C’è sempre di mezzo una L, quella di mio fratello Luciano, morto lo scorso anno pure lui a luglio, il 24. Mio fratello aveva una grave malattia mentale, i nostri rapporti non potevano essere buoni, sono stato aggredito fisicamente più volte da lui. E non nego che, a volte, ho pensato alla sua morte come una liberazione da una persona ingestibile e intrattabile. Ma quando se ne è andato, mi sono trovato senza volere a piangerlo. E leggendo il libro di Del Moro ho compreso ancora meglio che con lui è morta pure una parte di me, che la mia storia volens nolens è intrecciata inestricabilmente con la sua. E che, dunque, la debbo scrivere questa storia, anche se, già so, che non sarà facile. 

Nina ► Sabato 16 marzo u. s. si è svolto nella sala di Factory Bo, nell’ambito del festival Bologna in Lettere, un intenso e sfaccettato incontro di omaggio e ricordo per Nina Maroccolo, poliartista di gran valore, morta poco più di un anno fa a soli 56 anni. La manifestazione chiamata “Per incantamento” era curata e coordinata dal poeta Enea Roversi, affiancato da Plinio Perilli, compagno di vita ed arte di Alessandra Nina per circa 20 anni. Nel corso dell’evento si sono alternate letture, testimonianze, performance, video, audio e memorie sparse che mi hanno fatto riflettere da un lato a quanto i molteplici talenti di Nina, artista visiva, cantante-performer, fotografa, poeta, narratrice, siano stati e siano tuttora sottovalutati in generale, nonché pressoché ignorati dal mainstream culturale e accademico; dall’altro lato che Maroccolo nel corso della sua non lunga e perturbata esistenza, minata da una costante sindrome depressiva, ha saputo intrecciare dialoghi, amicizie, rapporti di feconda interazione creativa anche con artisti stranieri, che le hanno rimeritato un forte slancio di affetto e, direi, tout-court di amore da parte di tutti o quasi tutti quelli che l’hanno conosciuta. Cosa che il 16 marzo si è riconfermata nelle parole e nella, appunto, amorosa presenza dei partecipanti: Cinzia Marulli, Francesca Del Moro, Anna Maria Curci, Stefania Di Lino, Teresa e Rossana Coratella, Lucia Guidorizzi, Marthia Carrozzo, Martina Campi & Mario Sboarina.

Personalmente, oltre a leggere il poemetto poetocritico Nina eucaliptica, a lei dedicato nel luglio del 2021 dopo avere visto la sua magnifica mostra “La rivoluzione degli eucalipti” alla Galleria d’Arte Moderna della capitale, ho rammentato la viva amicizia che ci legava e la nostra importante collaborazione artistica e teatrale, facendo ascoltare tre frammenti del mio spettacolo Me Dea, allestito al Teatro Aleph di Roma nel maggio del 2014, in cui risaltavano gli splendidi melismi poetici del recitar-cantando di Nina, protagonista dell’allestimento accanto a Giulia Perroni. 

Nina Maroccolo in “Me Dea” (2014, ph. M. Palladini)

Ma forse il momento per me più bello di quella serata è stato l’atto finale, quando ho rivisto un video, che mi aveva inviato credo tre anni fa, in cui Nina, colpita da tumore al seno e sottoposta a pesanti cicli di chemioterapia, si autoriprende in primo piano senza capelli, con un trucco estroso e buffo, di tra clownesco e tribale e improvvisa un monologo stralunato, rivolgendosi al suo corpo alla deriva, abitato da un maligno intruso. Il volto di Nina assume pose grottesche, indulge in plurime smorfie, la sua faccia-maschera emette fonemi, borborigmi. E le parole che sgorgano sono dolorose e ironiche, interrogative e smarrite, oblique ed ubique: un fiotto verbale straniato di autoconfessione e autoesposizione di mirabile coraggio e di trasparente sguardo interiore, senza patetismi e senza falsi pudori, da donna vera, da intellettuale e artista che sa scorgere l’abisso dentro di sé e non arretra, non trema, è come se cercasse ancora una luce, una luce di senso profondo anche nella propria malattia, una malattia letale.

Davvero, per me, un pezzo di teatro all’impronta da applaudire con tutto il cuore. Nina Maroccolo, la mia Me Dea, continuerò ad applaudirla tutte le volte che ci sarà occasione di non dimenticarla… augh.       

 Letture – 2 ► Antonello Ricci da Viterbo, fraterno amico da almeno un trentennio, è sempre capace di sorprendermi. Mi giunge adesso un suo nuovo volumetto, Dylaniana (Effigi, 2024), che fa ulteriormente risaltare le sue qualità di figura artistica prismatica. Poeta lineare e verbovisivo, prosatore, critico, saggista, storico locale, ma poi anche,  come sottolinea il suo esegeta princeps Marco D’Aureli, ‘narratore di comunità’ e ‘sciamano della parola’, ovvero eclettico performer e pubblico raccontatore e cantapoeta, suonatore di chitarra acustica e armonica a bocca, autore di canzoni col suo sodale Silvio Ciapica, e grande amante del repertorio del menestrello di Duluth, Bob Dylan, ma poi pure studioso e praticante della tradizionale poesia a braccio improvvisata in ottava rima.

Ancora a lungo si potrebbe dire di Antonello, che è pure un devoto e amato (dai suoi allievi) insegnante (n. 1961) che sta per andare in pensione e ha concepito Dylaniana, secondo afferma lui stesso, come un “libretto di sala” utile a scandire “l’evento-racconto-concerto-bevuta” che si terrà nel prossimo giugno “al Bistrot del Teatro di Viterbo” per festeggiare con amici e compagni di vita e di percorso un pensionamento che è insieme una cruciale svolta esistenziale, ma anche il preludio di nuove avventure artistiche ed espressive che sicuramente non mancheranno da parte del nostro. E nel libro c’è una struggente composizione che proprio a questo passo epocale è dedicata:

… In questi anni di bilanci & rilanci / un po’ tutto era tornato, trovando un posto / un suo senso… / Un po’ tutto, non la scuola / non la scuola, chissà / … Ora, solo ora / ogni giorno / mi rendo conto / entrando in classe / frugando nei loro occhi / le mie ragazze / i miei ragazzi / solo ora mi rendo conto per davvero: / tutto ha avuto valore / tutto era perfetto così / questo mestiere era / nella mia vita era / la mia stessa vita / … E se la vita vorrà farmi dono / di nuove occasioni / io risponderò: eccomi // Any day now, any day now / I shall be released”.

La chiusura ‘dylaniata’ “da un giorno all’altro, sarò liberato”, mi impressiona perché ben conoscendo Ricci non riesco a vederlo nella figura del ‘vecchio saggio’, magari con la barba bianca. Lui ha tuttora una figura, per dirla alla Valentino Zeichen, di ‘vecchio ragazzo’, comunica con uno slancio e una passione e un’energia di giovane sapiente che proprio nel momento in cui stila un bilancio, è già palesemente pronto al rilancio, è tutto meno che ripiegato su se stesso, su uno sguardo nostalgico verso ciò che è stato.

Questo medesimo libro, come sempre indica D’Aureli, è l’opera di un “bricoleur” che interfaccia, come in un canzoniere trasversale, testi propri e altrui, impertinenti parodie (It’s alright, Ma’ – I’m only bleeding di Dylan diventa Butta la pasta) e riflessioni in inglese sul Suonare a orecchio (Woody Guthrie) tramutate in una impeccabile poesia; brani che richiamano, oltre Dylan, Vittorio Alfieri o Francesco De Gregori o Fabrizio De André e pezzi in versi di autori minori o dimenticati quali Quintilio Cosimi o Imperio Brizi; col contorno poi di varie glosse critiche e degli icastici ritratti di Antonello firmati dal figlio Lorenzo.

Alla fine, questo bricolage letterario-musicale lo si percepisce proprio come un ‘cadeau’ che Ricci indirizza a tutti coloro che lo stimano e gli vogliono bene e hanno voglia di festeggiarlo. Sottolineando l’insostenibile e serioludica leggerezza del suo esserci.  

P.S. – Consiglio di accompagnare la lettura del libro con l’ascolto in rete dei brani musicali indicati da Antonello nella sua mai casuale playlist.                                                          

Gerontocrati ► E dunque saranno ancora Joe Biden e Donald Trump a sfidarsi il prossimo 5 novembre per la presidenza degli Stati Uniti. Biden che avrà allora quasi 82 anni e che mostra da tempo preoccupanti segni di rimbambimento senile e un portamento fisico precario e incerto. The Donald che avrà 78 anni e che pure lui, a dispetto dell’accanimento propagandistico, evidenzia passaggi a vuoto e sbandamenti mentali. Sinceramente dà da pensare il fatto che la massima superpotenza planetaria non riesca a proporre per la più importante carica politica un ricambio generazionale né in campo democratico, né in quello repubblicano. Come se la crisi dei sistemi democratici occidentali, su cui da anni dissertano i politologi, si avviti anche in America sul fatale e letale invecchiamento della classe dirigente, per forza anagrafica di cose incapace di immaginare il futuro, di delineare nuovi orizzonti, condannata a ripetere usurati schemi sempre più regressivi e inetti a fare fronte ai molti gravi problemi strategici, economici, climatici e geopolitici del pianeta.

Persino in un paese marginale come l’Italietta, dove da sempre si lamentava la persistente gerontocrazia del ceto politico, un ricambio c’è stato: Giorgia Meloni, la leader post-fascista, attuale Presidente del consiglio, ha 47 anni; Elly Schlein, segretaria del Pd, la principale forza di opposizione, avrà a maggio 39 anni. Senza contare che sono due donne, diversissime, ma entrambe indicative di un cambiamento epocale nostrano nell’ambito del ‘gender gap’, che attribuisce a soggetti femminili ruoli politici apicali, un tempo esclusivo dominio degli uomini. Nulla di ciò negli Usa, nel centro dell’impero capitalistico dell’Ovest. Che rivinca Biden oppure Trump, è poi assai probabile che il presidente gerontocrate dovrà capire cosa fare per fermare la mattanza delle due principali guerre, in Ucraina e in Palestina, attualmente in corso e costantemente a rischio di catastrofico allargamento. Avrà la lucidità per farlo? C’è da dubitarne. Staremo a vedere cosa succede, noi sudditi e sudditanti impotenti del moloch a stelle e strisce. Ma non c’è da stare tranquilli, questo è poco ma sicuro.      

Biden versus Trump

Democratura o la dittatura votata dal popolo ► Quanto sopra si potrebbe dire che rappresenta lo stato del fronte dell’Ovest. E il fronte dell’Est? Ossia la Russia putiniana impegnata da oltre due anni nell’invasione dell’Ucraina con alterne vicende? Qui il 71enne Vladimir Vladimirovič Putin si è fatto rieleggere a metà marzo per un quinto mandato presidenziale con una percentuale di voti (88,48%) che un tempo si sarebbe definita ‘bulgara’. Da decenni ormai si parla di ‘democratura’ ovvero di una effettuale dittatura in una cornice formalmente democratica, convalidata da massicci, iperbolici consensi elettorali. Putin non è il solo autocrate che si fa legittimare da un voto oceanico. Vari osservatori politici hanno ricordato il suo compare bielorusso Lukashenko, da oltre tre decadi al potere, che nelle elezioni del 2020 ottenne oltre l’80% dei voti; e poi c’è il presidente siriano Bashar al-Assad, spietato e inamovibile, che nel 2021 raccolse il 91% di consensi elettorali grazie pure a raffiche di brogli. Persino il sinistro e fantoccesco dittatore della Corea del Nord, il 40enne Kim Jong-un, organizzò nel 2014 delle elezioni dove sulle schede vi era soltanto il suo nome e poté vantarsi di avere raggiunto il 99% delle preferenze. Soltanto in Cina il 70enne Xi Jinping può fare a meno di indire elezioni-farsa, essendo il sistema politico basato sul solo Partito Comunista, forte di 97 milioni di membri; è dunque il Pcc che esprime il vertice del partito che coincide con quello dello Stato. Non dimenticando che Xi è anche il presidente della Commissione militare centrale, perché senza il monopolio della forza armata sarebbe precario pure il monopolio della forza politica. Tutto sommato il sistema cinese è quello più chiaro, trasparente e, si licet, onesto: c’è la dittatura del partito e basta, non c’è bisogno di coperture di democratura e di imporre ai cittadini-sudditi la scocciatura di andare alle urne per esprimere un voto scontato. E non è un caso che di fronte alle evidenti difficoltà, se non tout-court alla crisi delle democrazie occidentali, molti nel mondo guardino alla Cina come la nuova superpotenza in grado di coniugare stabilità politica e avanzamento tecnocratico ed economico. C’è chi pronostica che alla fine del XXI secolo l’impero cinese avrà sormontato quello americano e non sembra una previsione azzardata. Se, però, prima non scoppia una Terza guerra mondiale, probabilmente terminale. Anche questa una ipotesi per nulla fantasiosa, anzi a guardare i disequilibri geopolitici del mondo, assai probabile… purtroppo.       

“Dettatore Maximo”In tono con il paragrafo precedente un mio prosimetro di qualche anno fa, Dettatore Maximo


«Ha la mano putrida che addita il vuoto, / lui che s’inventa come il grande asperrimo Dettatore / che addenta l’insonnia degli umani, la mastica amaro / e la risputa fuori secondo una cripto-coscienza servile ed ovile / Il mega Dettatore sa pure quello che non sa / e si arroga il mesmerico potere di mettere in riga tutti quanti / punendoli anche e soprattutto per quello che non hanno fatto, ma potrebbero sempre voler fare / Enigmatico, capriccioso e incomprensibile il super Dettatore non sogna mai / perché è lui medesimo l’incubo in persona dei suoi sudditanti / che siano cani urlanti e sbavanti o micetti piangenti e smiagolanti / è la preterizione del satrapo e parla con voce catramosa l’iper Dettatore / che detesta i tipi daltonici, i filosofi platonici, gli artisti aniconici e pure i comici / che vorrebbero ucciderlo mettendolo charlottianamente in ridicolo / e che lui fa uccidere mettendoli bendati in pericolo sull’orlo di un abisso, / basta un piede in fallo e quelli vanno tutti giù nell’orrido / Non ride o sorride mai il maxi Dettatore che al massimo sogghigna come una iena malata / Lui bandisce la musica, la pittura, il teatro, la danza, il circo, il cine / e persino i burattini perché traviano i bambini / Tanto ci pensa lui, il bafometto iattante e cangiante, a raccontare loro le fiabe che li educano / all’obbedienza totale, alla sottomissione generalizzata, alla pazienza narcotizzata / L’indiato Dettatore ha un’unica, funerea religione, ovvero se stesso, l’idolo crudele e vampiresco che si fa pregare ed impetrare / e che sempre alle moltitudini risponde NO! perché fatti foste a vivere come bruti e giammai per seguire le fole di ‘virtute e canoscenza’ / Schizofrenico e nevrastenico il Dettatore non plus ultra non sa chi è, eppure c’è e detta e ridetta e non fa sconti a nessuno: / a me il dettare e a voi lo scrivere e non sbagliate a ricopiare ché, se mi gira, mi basta un cenno del mento per farvi cancellare / Oltre l’oltretomba il magistrale Dettatore ricombina ogni giorno il suo demoniaco giuoco / ed assicura ai soccombenti che non c’è alcun errore, / ma soltanto un astorico, inspiegabile esserci nel dolore, trasceso in pura mistica del terrore…».

Venti di guerra terminale ► Chissà se è un’astuzia dell’inconscio collettivo-giornalistico che in questa epochè dove sempre più insistenti soffiano i venti che sembrano annunciare una Terza guerra mondiale, è apparsa, in una serie di ristampe relative alle “prime pagine storiche del Corriere della Sera”, la prima pagina del 24 maggio 1915 che annuncia la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria, dunque l’entrata del nostro paese nella Prima guerra mondiale scoppiata l’anno prima, rovesciando la Triplice Alleanza. Il Corriere della Sera, il più importante quotidiano nazionale, era 109 anni fa, si sa, risolutamente interventista e, quindi, non sorprende l’editoriale intitolato icasticamente “Guerra!”. Un editoriale non firmato, ergo assai probabilmente scritto o quanto meno ispirato dal direttore di allora, il ‘mitico’ Luigi Albertini. Nel fondo si dà… fondo a tutta la retorica guerresca del tempo a cominciare dall’incipit: “La parola formidabile tuona da un capo all’altro d’Italia e si avventa alla frontiera orientale, dove i cannoni la ripeteranno agli echi delle terre che aspettano la liberazione: guerra!”. Il senso dell’articolo è chiaro: si tratta dell’“ultima guerra dell’indipendenza… L’ultimo capitolo del Risorgimento! Il circolo sacro sta per congiungersi e l’Europa d’oggi rassomiglia singolarmente, in tanta mutazione di vicende e di pensieri, all’Europa del 1848”. Il tono albertiniano è da puro agit-prop: “Guerra per noi e per l’Europa, pei nostri fratelli di sangue e per tutti i nostri fratelli di civiltà nel mondo… Ma l’Italia ha scelto la guerra. L’Italia ha voluto la guerra. L’Italia è presente dove anche i più sacri diritti si riconquistano col sangue”. L’explicit del pezzo è epicamente assertivo: “… tutta l’Europa è l’antica lombarda Compagnia della Morte!”.

Si invocava morte & sangue, dunque: e non erano vane chiacchiere; rammento il numero dei caduti italiani nel primo conflitto mondiale: 651mila soldati, 589mila civili, in tutto 1.240.000 compatrioti.  

Leggo, così, queste parole di propaganda dopo oltre un secolo e non posso non ravvisare le somiglianze con le parole di chi, oggi, in nome della democrazia, della Nato, della alleanza atlantica sinonimo tout-court di libertà, chiama in buona sostanza i “fratelli di civiltà” al combattimento contro la Russia di Putin e, magari, in successione contro la Cina comunista. E non è un caso, mi pare, che a commentare questa “prima pagina storica” del Corsera sia stato chiamato uno storico, Ernesto Galli Della Loggia, che alcuni mesi fa si era speso in considerazioni varie circa le virtù della guerra, irridendo il pacifismo imbelle che ci renderebbe succubi di tutti i tiranni planetari. Ecco che il cerchio sembra chiudersi: sacra la guerra di un secolo fa, sacra la guerra oggi a difesa della nostra civiltà. C’è il piccolo particolare che una Terza guerra mondiale sfocerebbe, al presente, quasi fatalmente in un conflitto di armi nucleari che distruggerebbero ogni traccia di civiltà. Di tale scenario di annientamento post-atomico c’è una veridica descrizione nell’apocalittico romanzo La strada (2006) di Cormac McCarthy. Ma gli incendiari oggidiani non leggono romanzi, si inebriano di se medesimi, dei loro slogan retorico-bellicisti e stanno preparando, appunto, l’apocalisse prossima ventura… augh.  

Aprile 2024            

Lascia un commento