L’antagonismo ai tempi della mucillagine sociale. Sguardi critici su “Creando Chaos – Spoken Rock Poetry” di Marco Palladini (2023)

di Donato Di Stasi

1. Marco Palladini, uno e multiplo: poeta, performer, critico, saggista, uomo di teatro, direttore di riviste, drammaturgo e librettista. Un Io che si scompone e assegna una parte frastagliata a ciascuno di questi eteronimi, in special modo all’ultimo che cade a piombo al centro della scena con un’opera rock, Creando Chaos (Zona Editrice, 2023), fitta di biforcazioni concettuali e di esplosioni vitalistiche in linea con altre imprese poetico-rockeggianti del passato (penso a Orfeo 9 di Tito Schipa jr. del 1970, oppure a Joe’s garage di Frank Zappa del 1979).

Dunque, un’abbondanza di talento lungo 13 tracce per voce recitante e chitarra elettrica dell’ottimo Gianluca Mei: 13 invettive su un tappeto sonoro ruvido, lancinante, a tratti ossessivo, senza disdegnare intermezzi ammalianti, neogotici, protoromantici.

Con le sue poesie in musica Marco Palladini schiaffeggia il maggior numero possibile di luoghi comuni, così come il ritmo monolineare dei pregiudizi e la fanghiglia ideologica attuale.

Agita e scuote l’ascoltatore fino al punto da renderlo ricettivo, de-anestetizzandolo: il suo è un castigare e uno spurgare le cortecce auricolari, disperdendo, disunendo il pensiero unico, soffocante come ovatta in gola (“Creando chaos / si pensa solo chaos, si produce il chaos, / si ama il chaos, si scopa con il chaos, /si crepa per il chaos / Il demonologo che sul dio-chaos / sogghigna e prospera, lo sa da sempre: / emana dal multiperverso chaos / ogni possibile, labirintica verità / e il suo aberrante illimite è in sé”).

2. Marco Palladini avanza con la forza della sua voce e con l’impeto totemico di una chitarra fatamorgana. Noi che ascoltiamo ci troviamo all’interno di un movimento scardinante, di una partitura con i suoi schianti violenti: fionda, o freccia, la modulazione sonora rompe l’assetto del consueto e le sue reiterazioni insopportabili.

Parole, ritmi e progressioni armoniche incalzano la nostra epoca disossata, stabilendo una netta demarcazione fra pensare e de-pensare, fra vivere bene e vivere male, fra lo scorrere senza crucci del presente e la necessità di frapporre ostacoli, barricate ideali, resilienze morali alla grottesca apocalisse in atto.

Dalle potenti irradiazioni del linguaggio sprigionano caoticamente il sacro, l’osceno, la blasfemia, il silenzio, la pazzia, l’onniscienza, la rigorosa costruzione logica, l’urlo, l’androginia, le marezzature della coscienza, le autoflagellazioni dell’inconscio, il tenace cordone ombelicale autore-ascoltatore/lettore (“Sono Sono Sono e vado in soprattono

/ Sono Sono Sono niente stereo solo mono / Sono Sono Sono che mi lecco un bel cono

/ Sono Sono Sono come piove diobòno / come piove diobòno // Sono i disastri che combinano gli industriali / Sono le fabbriche che chiudono i maiali / Sono i fallimenti che alimentano la distopia / Sono le crisi del capitale che ribadiscono e così sia / Sono visioni del mondo che non ci sono più / Sono preghiere del giorno in nome d’un Gesù che fu / Sono le vane denunce di quotidiani massacri / Sono le filosofie atee che parlano di uomini sacri / Sono le vie bizzarre che percorrono i pensieri / Sono la forza immensa che producono i desideri”).

Ricerche di senso, attraversamenti e tragitti, si sovrappongono, si rovesciano l’uno nell’altro, battono sull’incudine del dubbio, così che polisemia e libera soggettività fanno risalire in superficie il magma degli eventi particolari e macrostorici.

Il recitativo si mantiene in precario e salutare equilibrio fra il parlato e il cantato: sonorità esclamative si alternano a una vocalità intima, riflessiva, mai arresa.

Le enunciazioni scomode si occupano di tutto, soprattutto di smussare gli angoli più taglienti della distopia imperante: se le ferite non rimarginano, prima o poi bisogna intervenire, suturarle, medicarle.

Per i pochi o tanti resistenti ancora in circolazione, Creando Chaos è un balsamo e una certezza: medicamento per i disastri ormai quotidiani che ci piombano addosso dalla sfera economica e politica; presenza sicura dello scorridore, del vessillifero Marco Palladini, deciso antagonista dell’impero del falso, capace di far entrare un soffio di aria fresca nelle mefitiche latitudini in cui dimoriamo.

3. Dissolti gli oggetti, ritiratasi la realtà nell’iperreale, in un vuoto simulacro autoreferenziale, rimane solamente il corpo a presidiare ciò che resta del mondo dell’esperienza. Con la riflessione sulla corporeità Marco Palladini raggiunge l’apice della sua performance rock esplosiva: i corpi marchiati a freddo con i tatuaggi diventano parte integrante del capitalismo semiotico, allo stesso modo della sessualità ridotta a contemplazione virtuale e privata della sua carica eversiva, della sua ambiguità e abissalità.

La sessualità feticizzata cancella l’erotismo che non può esercitarsi in una dimensione fantasmatica, a suo modo oscena, sempre a portata di sguardo.

Fa bene Palladini a sottolineare l’inappagabilità del desiderio, perché dis-erotizzato, meccanizzato, falsamente indotto, non dovendo sperimentare mai la negazione, il rifiuto, l’indisponibilità.

Sul corpo si installa una duplice funzione cosmetica e falsamente erotica, mentre alla dimensione biologica viene assegnata la sola contrattualizzazione, la monetizzazione delle azioni quotidiane (basta aprire una qualsiasi piattaforma su internet per comprendere come e quanto i corpi sono messi al lavoro per produrre profitto, in linea con la diffusione planetaria di pornhub et similia).

Marco Palladini indaga quanto più è possibile il materiale relativo al corpo chiuso, vetrificato, pastificato, facendone esplodere tutte le contraddizioni e liberandolo nella forma del discorso, nella dimensione di una rinnovata costruzione di segni, di una minuziosa catalogazione del senso:

“Corpo-abisso / corpo-caos / corpo-animale // Corpo-segreto / corpo-mistero / corpo-fatale //

Corpo-blu / corpo-viola / corpo-giallo // Corpo-pavone / corpo-sirena / corpo-gallo //

Corpo-mente / corpo-cielo / corpo-infinito // Corpo-sudore / corpo-tumefatto / corpo-sparito

Corpo-in piedi / corpo-sdraiato /corpo-supino // Corpo-elettrico / corpo-vagante /corpo-marino // Corpo-di ballo/corpo-in festa/corpo-flottante // Corpo-tripudio/corpo-triste / corpo-ansante // Corpo-umano / corpo-vissuto / CORPO-MORTO // Corpo-ghiaccio / corpo-fuoco / CORPO RISORTO”.

4. Creando Chaos è un’opera solida, un meccanismo che funziona spedito, in cui gli ingranaggi sono a maglia larga: le note superano le altezze prestabilite, si diffondono con la stessa intensità del recitato che si alza dal tappeto sonoro e agisce per frazioni di senso, perfettamente calibrato fra l’eccesso del superfluo e il difetto dell’inadeguato.

Rispetto agli assi x e y (scrittura e partitura musicale), la voce si pone in una dimensione obliqua e produce le vibrazioni più forti e più fluide.

Marco Palladini esplicita il suo intento poematico nella direzione di non rifare ultime o penultime avanguardie: negli anni ha messo a punto un impasto linguistico che non può dirsi macaronea o pastiche, ma una personale e riuscita mescidazione di stilemi, lessemi, codici, registri, citazioni dalle fonti più disparate. Si tratta di un’operazione compositiva condotta mediante il ricorso a una fenomenologia linguistica di tipo atonale e pantarmonico con tutto il carico possibile di locuzioni mobili e semimobili, adatte a una nuova forma di rappresentazione.

Creando Chaos toglie le cose dal loro angolo muto, le persone dal loro angolo storico di esclusione, di più affaccia sul futuro, raccontando in modo spietato i nostri anni più recenti.

Attraverso una scrittura folle, spregiudicata, precisa come un’operazione chirurgica, bellamente anarchica, Marco Palladini sembra suggerirci che un altro Occidente è possibile, oltre a quello vivisezionato dalla peste della disumanizzazione e della ricerca del profitto efferato.

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