Dragan Mraović (1947-2022): poeta e traduttore, ponte culturale tra Serbia e Italia

di Anna Santoliquido

   Si vive e non si comprende mai abbastanza il confine tra la vita e la morte. Quando un affetto scompare si squarciano i veli e si barcolla tra l’incredulità e il reale. Il tempo da ‘soggetto’ sonnacchioso diventa improvvisamente il nemico su cui scagliare dardi impietosi. L’ansia ti serra la gola e annaspi tra dubbi e incertezze. Ti chiedi se sia tu ad essere nel mistero o se l’opacità dei giorni ti abbia negato di comprendere il senso vero dell’esistere.

   Un vortice mi ha rapito i pensieri la mattina di domenica 20 marzo quando, da un messaggio WhatsApp, ho appreso la notizia della morte del poeta e scrittore serbo Dragan Mraović. Mi sembrava una burla. Lui era un gigante e non poteva essersi arreso. Ho tempestato di domande le colleghe di Belgrado, nella speranza di una smentita. E invece il serpente cominciava a circuirmi, per dirmi che tutto termina. Nella feroce battaglia tra il dolore e la rabbia, la ragione si affacciava a stento. Le lacrime e i sentimenti correvano come cavalli imbizzarriti e intanto rivedevo il mio amico sorridere davanti a un boccale di birra e recitare versi a Skadarlija, il quartiere bohémien della capitale serba, dove tante volte ci eravamo intrattenuti. Mi piaceva gustare il caffè turco ai tavolini della Montmartre serba e ascoltare le canzoni d’amore intrise di malinconia.

   Dragan ha cantato il Danubio, il Sava, il Timaco, la terra, i monasteri medievali ricchi di affreschi e icone. La storia del suo paese lo affascinava e la cercava nei libri, sui volti della gente e nel suo stesso sangue. Nato a Novi Sad il 4 ottobre 1947, si era laureato in lingua e letteratura italiana e lingua francese presso la Facoltà di lingue di Belgrado, dove è vissuto e ha svolto ruoli importanti. È stato interprete, operatore economico, direttore commerciale della Zastava, direzione export-import di Belgrado (ex FIAT jugoslava), rappresentante della stessa azienda a Torino per cinque anni.

   L’ho conosciuto a Bari, a metà degli anni Ottanta, e da allora la nostra amicizia non si è mai interrotta. All’epoca ricopriva la carica di funzionario diplomatico della RSFJ (1985-1990), successivamente rientrò a Belgrado dove divenne redattore alla “KPZ Beograda”, un prestigioso centro culturale. Negli anni 1999-2002 fu nuovamente a Bari nel ruolo di Console capo del Consolato della RF della Jugoslavia. In seguito, insegnò lingua e letteratura italiana nel più antico liceo serbo di Sremski Karlovci, per poi ritornare a Bari nelle vesti di docente di serbo presso la Facoltà di lingue e letterature straniere (2006-2009).

   Negli anni trascorsi in Puglia ha intrecciato amicizie umane e letterarie, in particolare con i poeti “La Vallisa” e “Donne e Poesia”, dando vita a una miriade di progetti che sono sfociati nella pubblicazione di decine di volumi di poesia e narrativa, antologie, scambi culturali, convegni, mostre. Bari e Belgrado sembravano due città gemellate, nel nome di San Nicola e della poesia.

   Giornalista, opinionista e traduttore, ha collaborato con molte testate, tra cui il quotidiano «DAN» del Montenegro, la rivista «Euroasia» di Parma, il quotidiano «La Rinascita» di Roma, la rivista «La Vallisa» di Bari. Ha collaborato con Radio Vaticana soprattutto per le questioni riguardanti la Serbia e il Montenegro. A Belgrado ha diretto la rivista «Il giornale dei poeti». Nell’ambito dell’Associazione degli scrittori della Serbia ha rivestito la carica di Presidente del Comitato per le relazioni estere. È stato anche membro dell’Associazione dei giornalisti della Serbia e della Federazione Internazionale dei Giornalisti.

   Come scrittore e traduttore ha pubblicato oltre 150 libri. Componeva poesie per adulti e per bambini, tra i tanti titoli si ricordano: Verso spighe, 1977, La mano per il sogno, 1981, La venuta nel ricordo, 1982, Le voci della linea di confine, 1983, L’erba del mio volto, 1989, Evviva il primo amore, 1990, Larazzo, 2002, Libro bohémien, 2011. Ha curato vari volumi, tra cui la monografia: San Nicola, 2003, con Zoran Saramandić, La Vallisa – i nostri primi vent’anni con la Serbia, 2007, e I nostri primi trent’anni. La Vallisa – Serbia, 2015, con Daniele Giancane, oltre alle monografie sui monasteri di Dečani e Hilander.

   Traduceva dall’italiano e in italiano e dal francese. Le sue traduzioni più importanti in serbo sono: La Divina Commedia di Dante, le opere scelte di Leopardi intitolate Or poserai per sempre, stanco mio cor, il Decamerone di Boccaccio, e poi D’Annunzio, I sonetti lussuriosi di Pietro Aretino, Democrazia, cos’è di G. Sartori, La storia della filosofia del diritto di G. Fassò, Gesù di Nazaret di Benedetto XVI, ecc.

   Ha tradotto in serbo due romanzi dello scrittore lucano Raffaele Nigro, un romanzo di Susanna Tamaro, di Giuliana Morandini, e una gran quantità di raccolte di versi dei poeti “La Vallisa”, tra i quali Giancane, de Santis, Bagnato, Bizzarro, Altomare, Pietrafesa, De Leo, Leone, Curci, Sallustio, Serricchio e la sottoscritta. Molti autori serbi sono stati da lui tradotti e pubblicati in Italia, tra cui la grande Desanka Maksimović, Milovan Vitezović, Dragomir Brajković, Srba Ignjatović, Moma Dimić, Branko Miljković, Vlasta Mladenović, Predrag Bogdanović, Goran Đorđević, Milica Jeftimijević Lilić, Ljiljana Habjanović Đurović e numerosi altri.

     L’arazzo, edito da La Vallisa di Bari nel 2002, è diviso in cinque sezioni che sintetizzano le varie esperienze dell’autore vissute in patria, a Torino e Bari. “L’uomo del ponte”, così denominato a seguito della sua partecipazione in Serbia, nel 1999, alla trasmissione del giornalista Michele Santoro da Brankov most (ponte di Branko), sul fiume Sava, affluente del Danubio, confida le amarezze per la guerra nella sua terra di cui esalta la bellezza e le asperità. Ironia e metafore giocano, si intersecano, per sconfiggere il pensiero della morte e il nulla.

   Gli eventi bellici degli anni Novanta hanno segnato le sue pagine. Il dolore per la Serbia bombardata non gli ha spento il desiderio di prodigarsi ancora per il bene comune. Pochi come lui hanno saputo far dialogare la Puglia con le civiltà oltre l’Adriatico.

   La tenerezza è un’altra connotazione della poesia di Dragan, in quanto lui intreccia l’amore per la sua donna a quello per l’acqua, la pesca, l’arte, la scrittura. È riuscito a colloquiare persino con il suo cuore, evidenziando una genuinità che rimanda al ‘fanciullino’ pascoliano:

          Ma tu, cuore, vai, brucia, perdi pure l’ultimo lume.

           Scemo, lotta sempre contro la ragione.

           Dondola come un galleggiante sull’onda del fiume

           e fatti trafiggere da un arpione.

                                                                            (“Cuore”)

E ancora:

           Quando la primavera dalle rondini sarà rapita,

            lascerò questo teatro ambulante e vizioso.

            Il cuore diventerà una stella infinita

            e il cuore troverà il suo eterno riposo.

                                               (“Il teatro ambulante”)

   Come per Pinter, il mondo per Dragan è una minaccia. Ci si illude che «vengano tempi migliori», si indossa la maschera e si annega nel silenzio e nelle parole. L’intuizione, l’irrazionale e il sogno leniscono la pena di chi cerca di sottrarre il più possibile alla morte, per consegnarlo alla poesia e alla bellezza.

   Autore bohémien ha fatto suo il motto di Abdulah Sidran, scrittore di Sarajevo e sceneggiatore dei film di Emir Kusturica: «L’uomo serio non deve mai prendere troppo sul serio se stesso». Difatti nel Libro bohémien (Secop, Corato 2011), 180 pagine di poesia, prosa, foto e ritratti, si legge:

“Un poeta bohémien non è un ubriacone, non è un drogato, non è un senzatetto, né un fannullone; insomma, non è un clochard, ma è un uomo saggio che sa vivere la vita, cosciente che ce n’è una sola». […] Un poeta bohémien si esprime in maniera comprensibile a tutti. Non gli piace il poeta da salotto […] è trasgressivo sia nei versi che nella vita, ma mai noioso. […] Un poeta bohémien ha forti dubbi sul suo essere poeta. […] L’ironia e il sarcasmo, soprattutto nei confronti di se stesso, sono le sue armi più brillanti”.

   Il libro ripropone parecchi testi pubblicati nella raccolta L’arazzo, con delle rielaborazioni. Dragan credeva nei «tesori della mente», nell’amicizia, nel sogno, convinto che «chi non sa sognare non è mai vissuto». Per lui la libertà consiste nel prendersi il tempo per vivere, senza correre dietro ai profitti. Scrivere significa lasciare una traccia per essere ricordati «almeno per un attimo. Quella piccola traccia che ti salva dalla pazzia per la paura della morte». Solo quando l’essere umano non è più ricordato è veramente morto. Sensibile ai cambiamenti planetari, si rammaricava per la perdita di umanità, per la frettolosità del vivere che non lascia spazio alla tenerezza, all’amore, al canto, ai «sogni ad occhi aperti».

“Le poesie di questo libro – annota – sono nate nelle trattorie, nelle osterie, nelle bettole e taverne di tutta la Serbia, ma anche di molti Paesi d’Europa. Non ho inventato niente. Tutto mi è successo”.

   Nelle ultime pagine spiega che il libro è anche un omaggio ai suoi tanti amici italiani, persone che vivono in «uno dei paesi più belli e più importanti del mondo [..] una nazione quella italiana, che è uno dei due pilastri storici della civiltà moderna europea: Grecia Antica e Roma Antica». Aggiunge che molte poesie del suddetto volume sono state scritte direttamente in italiano e quelle tradotte dal serbo sono frutto di autotraduzione.

   Mrav (Formica), come lo chiamavano in Serbia gli amici, dove tutti gli intellettuali hanno un nickname, componeva versi utilizzando la rima baciata o alternata, seguendo la tradizione slava. Il suo linguaggio, volutamente comunicativo e privo di ismi, arriva dritto al cuore del lettore. Le traduzioni di Dante e di Boccaccio sono tuttora adottate nelle scuole e nelle università serbe, mentre le sue poesie sono state tradotte, oltre che in italiano, in inglese, romeno, svedese, bulgaro, armeno, tedesco e greco.

   Ha vinto i massimi premi letterari della ex Jugoslavia e della Serbia attuale e molti anche in Italia.

Si menzionano almeno il Premio di Vuk, il più alto riconoscimento serbo per la cultura, il “Premio d’Ottobre” della città di Belgrado, l’“Anello d’oro”, il “Premio Bodini” a Bari. È decorato con la croce di Cavaliere dell’Associazione dei Cavalieri di tutte le Russie ed è stato insignito con la medaglia “N.F. Fedorov” della Russia, per il suo contributo alla cultura nazionale, alla religione ortodossa e all’amicizia con la Russia. Avrebbe meritato dei riconoscimenti dallo Stato italiano, per aver diffuso la nostra cultura sul suolo serbo.

   Dragan Mraović è vissuto in una villetta a Zemun, municipalità di Belgrado, ma con l’inizio della pandemia si era temporaneamente trasferito a Usije presso Golubac, dove i coniugi Mraović possiedono una casa sul Danubio. Un ambiente che gli consentiva di trascorrere giornate serene, per scrivere e pescare nel suo amato fiume. Si è spento improvvisamente la sera del 19 marzo 2022 ed è sepolto nel Cimitero nuovo di Belgrado, nello spazio riservato ai cittadini meritevoli.

  

Seguono dei testi scelti per «L’Age d’Or».

Alla vita e alla morte

Vita mia, mi hai già morso.

Birbona mia, ne sentirai rimorso?

Con te, ormai, mi sono sdebitato,

né più né meno di quanto mi hai dato.

Ma anche tu, morte mia, dolce nirvana,

non sei altro che una grande puttana.

Non chiedermi

Non vedo più i sentieri amati

nell’immensità dell’azzurro marino.

I miei desideri si sono placati

e la mia mente tende al declino.

Non chiedermi ora come mi sento.

I giorni passano pure a Bari, ma ascolta:

anche se ti sembro ancora vivo, a stento

ricordo il mio splendore di una volta.

Anche se …

Anche se l’amore non cambierà la mia sorte

forse sarebbe bello fare le corna alla morte.

Fiorisca un essere migliore di me

Oh, grave inganno del mondo,

mi preoccupo sempre di meno

del mio svanire nel tuo girotondo.

Quando diventerò una rosa rossa

che fiorisca un essere migliore

dalla terra concimata dalle mie ossa!

L’erba del mio volto

Sarò una mica celeste in eterno germe.

Sarò anch’io il fratello di qualche verme.

Si sazierà di me un bel pesce di fiume

ed il chiaro di luna gli farà lume.

Sarò aria, sarò terra, sarò l’erba pagana,

per qualche mucca da latte sarò una genziana.

Ma quella mucca cornuta con tanto di pelo folto

non saprà mai di brucare l’erba del mio volto.

So cara

So cara che con ogni goccia un giorno in meno mi rimane;

lasciami brindare, non ne hai colpa, tu, fatta di marzapane.

Tu, la migliore, peccato che non sia stata la prima ad avermi,

non piangere e mandami un bacio nel bel mondo dei vermi.

Poi, quando i fiori avranno il mio volto sotto il cielo sereno,

dirai che se fossi stato migliore mi avresti amato di meno.

Noi

Noi, come gocce di pioggia, cadiamo giù,

luccicando una volta sola e mai più.

Il poeta

Non c’è la pallottola adatta,

né la segreta,

né la tomba,

per la testa del poeta.

Il Diavolo agita invano la testa cornuta;

per il Poeta l’Inferno è la solita sorte.

Il serpente vibra invano con la lingua biforcuta;

il Poeta ha già celebrato col canto la sua morte.

L’arazzo

In un vecchio scrigno

della mia memoria

ho trovato un cigno

dimenticato dalla storia

Fu un sogno ingenuo e pazzo

di quando il cuore batteva forte

essere il cigno dell’arazzo

per sfuggire alla Signora Morte.

* da L’arazzo, La Vallisa, Bari 2002

Autunno a Belgrado

L’autunno sparge i suoi colori tenerissimi

come fossero coccinelle variopinte.

Lungo i viali di Belgrado amatissimi

mi seguono le tue pupille d’amore tinte.

L’autunno sta maturando a Skadarlija.

Più passano i giorni, più si avverte la bufera.

Chiedo ad ogni portone di questa via

quando mi abbandonerà la mia chimera?

Se sarà così non sarò affatto sorpreso.

Accenderò un’altra sigaretta nella trattoria.

Perdonerò chiunque mi abbia offeso.

Nel vino di Skadarlija affogherò la mia malinconia.

Lettera a Giordano Bruno

“Natura est deus in rebus” dicevi per giuoco,

povero Bruno: solo un illuso la verità implora.

Anche i nostri servi del dogma ti darebbero fuoco:

tutto è come prima, niente è cambiato ancora.

Però, il mondo ora è diventato più nobile e civile,

sicché ti offriremmo gentilmente una sedia elettrica,

non un volgare rogo, ma una siringa avvelenata, un fucile,

perché se non cambiano le cretinate, cambia la tecnica.

Ora, dimmi, dal tuo sogno della “natura naturata”,

se credi ancora che l’uomo sta nel centro di tutto?

Non illuderti, la società è ancor più snaturata;

smuovere uno stagno è sempre stato un delitto brutto.

Caro Bruno, non c’è un Dio che equivale alla natura

ed i potenti non rinunceranno mai al loro potere.

Ti renderebbero anche oggi la vita troppo dura

ed inventerebbero mille pene nuove per farti tacere.

                                            (Bari, 19 settembre 1998)

La neve della Serbia

Berretto e gilet di pelle d’agnello, le calze di lana lui veste

e va nel biancore infinito come in una magica fola.

Non esiste in Serbia un copricapo sotto la volta celeste

capace di nasconderti mentre intorno a te la neve vola.

Prendi mezzetta, scodella di legno e coperta multicolore,

mettiti in cammino e via verso la montagna alata;

ma quale mulino celeste ha macinato questo biancore,

questi popcorn bianchi per la Serbia incantata.

Giovane contadina con zigomi rossi, occhi neri e trecce,

con labbra carnose, oh lei è la fonte del mio male!

Chi la creò così fatta tutta di sogni e di frecce?

Chi creò lei tutta di fuoco, lei pallottola mortale?

La neve arriva fino alla vita, ma continua a nevicare.

Il vento di levante del Danubio potente balla.

Come da un falco il volto ti senti per il gelo pizzicare.

Serbia, che farai quando diventerò una farfalla?

Senza cervello, senza ragione

Ti amo senza cervello, senza ragione.

Mi aiutino tutti i santi del cupolone.

Ti maledico in ogni bicchiere di vino rosso,

ma ti voglio bene, sappilo, a più non posso.

Dio mi salvi dal capire

perché senza di te mi sento morire.

Addio

Non ci rivedremo mai più, cara mia,

un altro poeta ti scriverà rime banali.

Allora io me ne andrò in una trattoria

a bere il vino con le piogge autunnali.

* da Libro bohémien, Secop Edizioni, Corato 2011  

        

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            

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