Le riviste letterarie nel Novecento et ultra

di Stefano Lanuzza

Parole in libertà alla Marinetti sono quelle di Papini che il 21 febbraio 1913, nel suo Discorso a Roma. Contro Roma e contro Benedetto Croce tenuto al teatro romano Costanzi, grida: “Siamo nelle mani dei borghesi, dei burocratici, degli accademici, dei posapiano, dei piacciconi. Non basta aprire le finestre – bisogna sfondar le porte. Le riviste non bastano ci voglion le pedate” (!).

   Ora chi se la ricorda la stagione novecentesca delle riviste letterarie fiorentine, a partire da “Nuova Antologia” fondata nel 1866 dall’economista Francesco Protonotari con, fra i direttori, negli anni, il filosofo Giovanni Gentile, il politico Giovanni Spadolini e, oggi, lo storico Cosimo Ceccuti.

   Proveniente dal tardosecondonovecento, permane la rivista “il Portolano” – fondata nel 1995 da Francesco Gurrieri, Permoli e Pini – che nel 2016 supera il suo ventesimo anno di vita; e, come sancito dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, viene annoverata nella “Serie A” delle scienze filologico-letterarie, storico-filosofiche, ecc… Ma, bando alle omologazioni, importa – scrive Gurrieri nel numero 80-81 (gennaio-giugno 2015) – che “‘il Portolano’ [sia] cresciuto [e] ormai apprezzato in ambito nazionale”, continuando “a svolgere il suo imperativo originario: la fedeltà alla letteratura”. Fedeltà che vuol resistere a una tecnologia informatica che nei suoi effetti smaterializza la parola e la disperde nell’entropia del dilagante web mettendo in crisi tutto quanto sia cartaceo. Fedeltà da intendere come ostinazione a esprimersi – a scrivere e farsi leggere – sul supporto di carta e nella forma collaudata d’un periodico che, se accoglie il testimone delle migliori testate letterarie fiorentine del Novecento, si distanzia dal citato primonovecentesco “Il Regno” o da “Hérmes” (1904-1906), rassegne caratterizzate da un nazionalismo antidemocratico, dall’influenza dannunziana, da una morale individualistica, da prospettive guerrafondaie nonché dall’effimera esistenza.

   L’intervento italiano in Libia (29 settembre 1911-18 ottobre 1912) segna una frattura tra i redattori di “La Voce”, con Salvemini contrario alla guerra e i dioscuri Prezzolini-Papini che legittimano le pretese del nazionalismo aggressivo e colonialista. A favore dell’azione militare si schierano ancheMarinetti, Matilde Serao, D’Annunzio e Giovanni Pascoli che il 26 novembre 1911 lancia l’altamente retorico proclama: La grande Proletaria si è mossa.

   Episodi dell’ulteriore conflitto in Libia combattuto, tra il 1940 e il 1943, dal fascismo colonialista durante la Seconda guerra mondiale sono narrati – “memorie di una guerra inutile” – dal viareggino Mario Tobino nel romanzo-diario Il deserto della Libia (1952).

Di “Lacerba”, governata da Papini, con tra i collaboratori Palazzeschi e il triestino a Firenze Italo Tavolato (che in “Lacerba” pubblica nel 1913 il saggio Contro la morale sessuale, I febbraio;e il I maggio un Elogio della prostituzione. Diventando, negli anni ’30, un funzionario della polizia politica fascista), non si dimentica il bieco predicozzo papiniano (I ottobre 1914) d’ispirazione futurista Amiamo la guerra (“sola igiene del mondo”): “Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; […] Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. […] La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita. Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? Ci metterei la testa che non arrivano ai diti delle mani e dei piedi messi insieme. […] La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola. […] Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi”… Epressioni giudicate nient’altro che “letteratura canagliesca” da Piero Gobetti – giornalista torinese perseguitato dal fascismo, fondatore della rivista “La Rivoluzione Liberale” (1922-1925) ed editore di Ossi di seppia (1925), primo e maggior libro dell’esordiente Montale.

Con “Lacerba”, durevolmente imperversa “Il Marzocco” (1896-1930) che nel bellicoso numero 31 del 2 agosto 1914 annuncia trionfale l’entrata dell’Italia nella Prima guerra… Sarà uno stupefacente imprevisto vedere il lacerbiano Papini, già acceso contestatore politico (“Il Senato non è altro che il più centrale e il più celebre tra i molti ospizi per la vecchiaia mantenuti dalla carità nazionale”, “Lacerba”, 10 gennaio 1915) e anticlericale, convertirsi fino a pubblicare nel 1921 – dopo l’uscita su “Lacerba” del I giugno 1913 dell’empio articolo Gesù peccatore (“Se non proprio un poco di buono e un malfattore […,] un peccatore come tanti”) – una mistica Storia di Cristo, doppiata, trascorsa la Seconda guerra, dal resipiscente Il diavolo (1953).

Nel 1929, Ugo Ojetti fonda il periodico littorio “Pegaso” (chiuso nel 1933) e nel 1933 la similare “Pan”, sospesa nel 1935, stesso anno della chiusura di “L’Universale” dei Gruppi universitari fascisti con fondatore Berto Ricci nel 1931.

   Sempre nel 1929 iniziano le pubblicazioni “Il Bargello” (settimanale, durato fino al 1943, della Federazione provinciale fascista diretto da Alessandro Pavolini e, dal 1934, dal giornalista Gioacchino Contri) e, all’insegna d’un cattolicesimo radicale, “Il Frontespizio” (che chiude nel 1940) siglato dai Piero Bargellini Carlo Bo Papini Luzi Macrì Betocchi Lisi e Giorgio La Pira.

   Dopo la “Giornata della Fede” del 18 dicembre 1935 – che, per far fronte alla guerra in Etiopia e alle sanzioni economiche inflitte all’Italia dalla Società delle Nazioni, vede la consegna degli italiani al regime fascista di 33.622 chili d’oro e 93.473 chili d’argento –, un esultante articolo di Bargellini (Impero, n. 5, maggio 1936) annuncia la nascita dell’italico Impero d’Etiopia (9 maggio 1936).

   Poi accade che, dal 19 al 21 febbraio 1937, militari italiani insieme a squadre fasciste agli ordini del viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani, compiano ad Addis Abeba una strage di civili – fucilati impiccati bruciati. Non meno di ventimila i martiri, accresciuti dal 21 al 23 maggio dello stesso anno da esecuzioni sommarie culminate con l’uccisione di centinaia di monaci copti sospettati d’intesa con la resistenza etiopica. Una condanna contro Graziani – fascista della prima ora, firmatario del Manifesto della razza (1938) e collaboratore dei nazisti dichiarato “criminale di guerra” dalla Commissione ONU – si legge in The Addis Abeba Massacre (2017) dello storico inglese Ian Campbell.

   Del “Frontespizio”, restano le dispense monografiche dedicate a Leopardi (1937) e a D’Annunzio nel 1938, anno nel quale, il 9 maggio, una Firenze rimessa a nuovo e addobbata a festa accoglie Hitler proveniente da Roma. Nell’occasione – riferisce Carlo Lapucci – appare sui muri di Firenze la satirica scritta: “Firenze città dell’arte / gli va in culo quando arriva e quando parte” (Versi perduti senza collare, 2021)… Cicerone del Führer è Mussolini che pochi mesi dopo (18 settembre) annuncia a Trieste le Leggi razziali.

Caratteristicamente fiorentina seppure aperta alle letterature del mondo (Proust, Joyce, Gide, T. S. Eliot, Faulkner, Hemingway, Valéry, Rilke, Kafka, D. H. Lawrence, Th. Mann, Majakovskij, Esenin, Virginia Woolf…), persiste l’internazionalista e indipendente “Solaria” attenzionata dal regime perché creduta filoebraica. Graficamente accurata, la rivista, un attendibile modello del “Portolano”, è palestra dei Bonsanti e Gadda, Giacomo Debenedetti e Sergio Solmi, Gianna Manzini e Diego Valeri, Quasimodo e Ungaretti, Vittorini e Montale. Coi Loria, Noventa, Pampaloni, Fortini, Quarantotti Gambini, Mario Soldati o lo storico Giorgio Spini.

   Capisaldi nel contesto letterario nazionale d’allora appaiono i numeri solariani dedicati a Saba, Svevo e Tozzi. Allo stesso modo, memore dello sprovincializzato ‘metodo solariano’, il metasolariano “Portolano” riserva fascicoli monografici a Gadda e Malaparte o al germanista Masini; a un Claudio Magris in odore di Nobel, al germanista Cesare Cases, all’obliato Saverio Strati romanziere dell’ultima stagione del realismo verghiano; e a Pound Sartre Hemingway, ai Parronchi Betocchi Quasimodo Luzi Pratolini Vittorini.

   “Solariano” ricorda Vittorini “era una parola che, negli ambienti letterari di allora, significava antifascista, europeista, universalista, antitradizionalista… Giovanni Papini ci ingiuriava da un lato, e Farinacci dall’altro. Ci chiamavano anche sporchi giudei per l’ospitalità che si dava a scrittori di religione ebraica e per il bene che si diceva di Kafka e di Joyce. E ci chiamavano sciacalli. Ci chiamavano iene. Ci chiamavano affossatori” (“Pesci rossi”, n. 3, 1949; Diario in pubblico, 1957).

Nel 1945 – anno che al termine della guerra trova l’Europa divisa in due aree geopolitiche o sfere d’influenza contrapposte, l’Est del dittatore Stalin ‘sovietizzatore’ della parte orientale del continente europeo (metà della Germania con Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria) e l’Ovest libero seppure in stato di subordinazione politico-economica con gli egemonici Stati Uniti opposti all’insopito espansionismo del mondo russo –, nasce ad opera di Piero Calamandrei “Il Ponte” che nel 1973 dedicherà un magnifico numero monografico (7-8, 31 luglio-31 agosto) a Elio Vittorini, con testimonianze, tra diverse altre, di Sergio Solmi, Pampaloni, Italo Calvino, Luzi, Gian Carlo Pajetta, Marina Zancan, Valentino Bompiani, Giulio Einaudi, Alberto Mondadori e scritti dello stesso Vittorini.

   Rivista di politica, economia e letteratura, “Il Ponte” che a tutt’oggi è interprete del liberalsocialismo del Partito d’Azione (1942) dei Ferruccio Parri, Emilio Lussu e Riccardo Lombardi, sarà inopinatamente creduta da Franco Fortini – pure collaboratore, con l’articolo Rileggendo “Uomini e no”,del fascicolo monografico dedicato da “Il Ponte” a Vittorini – affetta da “un laicismo molto grigio e poco leggibile” (Note sulle riviste di cultura in Italia. 1945-1990, “Cenobio”, n. 1, gennaio-marzo 1992). La definizione parrebbe sia dovuta a un’invalsa antipatia dell’autore per una cerchia intellettuale fiorentina da cui non si suppone apprezzato abbastanza. Di Fortini, il suo collega Romano Luperini dell’università di Siena ricorda, in un’intervista a “la Repubblica” (14 febbraio 2016), “un’ingenuità narcisistica” e “un certo complesso di persecuzione”. Esprimendo anche un pensiero per Masini “grande germanista, uomo affabile e critico notevole di Nietzsche”.

Vittorini fonda nel 1945 a Torino “Il Politecnico” (chiuso nel 1947) e, con redazione a Firenze, esce “Il Nuovo Corriere” (1945-1956) diretto da Romano Bilenchi; con, tra numerosi collaboratori, Papini, Ungaretti, Calamandrei, Pratolini, Noventa, Longhi, Ragghianti, Bobbio, Giorgio La Pira o lo storico della filosofia Eugenio Garin… 

   Avviata nel 1946, “Belfagor. Rassegna di varia umanità” ispirata all’‘arcidiavolo’ di Machiavelli e diretta dal critico marxista Luigi Russo, poi dal figlio Carlo Ferdinando Russo, chiude nel 2012 dopo quasi settant’anni di vita.

   È verso la metà degli anni ’50, quando il ricordo della guerra è ancora fresco, che Luzi, sulle pagine del giornale letterario e d’arte “La Chimera” (1954-1955) stampata dall’editore e direttore fiorentino Enrico Vallecchi, polemizza con Pasolini. Presente, con Francesco Leonetti e Roberto Roversi, nella rivista bolognese “Officina” (1955-1959) rivolta a un impegno politico di stampo marxista, Pasolini contestava a Luzi di fare, similmente ad altri poeti tardoermetici, una poesia accademica, autocelebrativa, avulsa dalla situazione storica, non schierata sulle questioni civili e discosta dai problemi della vita concreta.

   Trascorsi gli anni Sessanta segnati in Italia dal boom economico e gli anni Settanta che registrano inflazione e recessione, si perviene negli anni Ottanta a una ripresa economica favorita, seppure tra squilibri e contraddizioni sociali, dall’innovazione tecnologica… Nel 1986, cessa la prima serie della rivista “Paragone” intrapresa nel 1950 dal critico d’arte Roberto Longhi coadiuvato dalla narratrice Anna Banti.

Emergendo dallo sfondo d’un panorama assai vario di pubblicazioni, “il Portolano”, col sostegno dell’editore d’affezione Pagliai, palesa un carattere che, non senza ricercate antinomie, punta a fare interagire il rigore accademico con certa insofferenza militante discutendo il sistema socio-politico ed esercitando una debita critica nei confronti dell’industria culturale (editorial-commerciale, televisiva, giornalistica, rotocalchesca). Magari deriverebbe da ciò – denota lo studioso Riccardo Bruscagli sul “Portolano” di gennaio-giugno 2015 – la “marcatura più vistosa della rivista” cioè “la sua fiorentinità”: vissuta “con sguardo lucidamente critico, fedele a certe irrinunciabili stagioni ma senza compiacenze, anzi talvolta con un accento di autoflagellazione anch’esso, manco a dirlo, molto ‘fiorentino’”. Aggiungendo: “Ad oggi non saprei citare una definizione della nostra città più giusta – e più mordente – di quella offerta nell’articolo di Stefano Lanuzza Una città come Papini (‘Il Portolano’, n. 23-24, luglio-dicembre 2000); che riconosce le contraddizioni insolvibili dell’‘anima fiorentina: la vera, eternamente contraddittoria e volubile, guelfa e ghibellina, bianca e nera, pallesca e piagnona anima fiorentina vogliosa di trasgressione e, insieme, amante dell’ordine, temprata entro un crogiolo di creatività progettuale e pragmatismo, impulsività coraggiosa o romanticismo, cinismo ironico o coscienza della verità, prudenza opportunistica o riservatezza’”.

   È in tale peculiare clima, dove ogni contraddizione va a comporsi in un vivace attivismo, che “il Portolano” s’avvalga d’uno stuolo di collaboratori – da Luzi a Enzo Siciliano, Veronesi, Camilleri, Rossanda, Materassi, Guagnini. Perciò, trascegliendo senza configurare una sistematicità, si rammentino l’intervento del 2000 di Claudio Magris Le radici di Microcosmi o, nel 2007, la riflessione di Gurrieri su Poesia o scrittura poetica e le riletture d’un autore variamente malfamato qual è Louis-Ferdinand Céline.

Tra gli altri ospiti del “Portolano”: Giovanna Mochi col saggio del 2009 C’era una volta la letteratura inglese o il germanista Mario Specchio con un intenso articolo su Masini (La lotta e la danza, 2012). Puntuale, nel n. 71 dell’ottobre-dicembre 2012, è da parte di Carlo Lapucci e Gurrieri il ricordo di Pini e Permoli. Con Lapucci che descrive Arnaldo Pini “uomo dotto, formato di cultura e teologia che viveva in un’aura medievaleggiante” e Gurrieri che, nello scritto Arnaldo, Nanni e “il Portolano”, accomuna i due amici: Pini poeta religioso e uomo “coltissimo”, Piergiovanni (Nanni) Permoli cinefilo affascinato dal mito dell’‘eterno femminino’ e cultore di Hemingway. “Con loro scompariva la parte sorgiva del ‘Portolano’ che avevano intuito insieme non senza – qualche tempo prima – la partecipazione di Ferruccio Masini”.

   Segue, nel fascicolo di gennaio-giugno 2013, una riflessione estetico-ermeneutica di Givone dal titolo Niente da dimostrare, tutto da interpretare. “Illuminare il presente è tutt’uno con l’abitare il presente” è il tema introdotto dal filosofo. Ancora del 2013 è un essenziale saggio di Marino Biondi sull’opera narrativa di Pratolini; e, nel 2014, si registrano gli scritti di Giuseppe Langella e Silvio Ramat sulla triade ermetica Luzi, Bigongiari, Parronchi.

   Nel primo fascicolo del 2015 del “Portolano” s’apprezza un’analisi di Valdo Spini sulla situazione delle riviste di cultura gravate dal fenomeno della globalizzazione, mentre nelle pagine di luglio-dicembre 2015 prende spazio un esauriente saggio comparatistico di Ernestina Pellegrini e Luciano Zampese su Luigi Meneghello il quale, come altri scrittori che fanno del plurilinguismo e dell’oralità la loro poetica, non starebbe a disagio nel ruolo di outsider o irregolare della letteratura italiana del Novecento.

*  (Dal libro inedito Porto franco)

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