Franco Matacotta: tra il successo critico e, poi, l’anonimato

di Riccardo Renzi[i]

A complemento del precedente articolo su Franco Matacotta si indaga qui circa l’opera critica condotta su di lui e alcuni inediti.

Una frase di Fortini del 1975 ci svela quale fosse stato il destino di Matacotta: «un poeta che conosce la notorietà da giovane e la dimenticanza del mondo in età matura»[ii]. La fama giovanile per il poeta fermano fu quasi una disgrazia. Con Fisarmonica rossa prima e Lepre bianca poi, egli raggiunse un livello estetico e di contenuto, alle quali non riuscì più ad avvicinarsi negli anni seguenti. Se vogliamo ritenere valida, pur con alcune riserve e con il rischio di sviluppare forme spurie di psicologismo critico, la confessione autobiografica, si deve ammettere che la vocazione ritmico-poetica in Matacotta è stata piuttosto precoce. Potremmo dire che ebbe un beffardo destino da predestinato: raggiunse subito la fama per poi non vederla più.

Nelle sue opere giovanili, dalla narrativa alla poesia, passando per la critica letteraria, la maggior parte dei critici, Valentini e Luzi su tutti, sentono una grande musicalità e armoniosità tra le parole e i periodi, condizione questa che rende i suoi testi particolarmente fruibili. «Nella Lepre bianca, romanzo pubblicato nel 1946, è possibile trovare frequenti tracce della sua passione per la musica e della poesia…»[iii]. Fu proprio questo amore per la musica che lo spinse ad inserire in tutte le sue opere giovanili elementi musicali, a tal proposito si pensi alla fisarmonica e al suo suono o ai canti partigiani. A tal proposito un contributo ci giunge in aiuto, quello del professor Dolfi, intitolato proprio, Il suono della fisarmonica [iv]. «Leggere Fisarmonica rossa di Franco Matacotta vuol dire muoversi in uno straordinario pentagramma di suoni e sensazioni, movimenti e stupori, paura e delusioni, passioni e speranze»[v]. È il suono stesso a tenere insieme le parole e a dare il senso della distruzione e del dolore:

La terra danza danza. È un subbuglio

Di viscere di catrame di nebbia di ossa,

Dentro il velluto carnale del buio

Suona un’ubriaca fisarmonica rossa.

*

Suona lombrico suona[vi]

La terra è avvolta dal suono dello strumento, il quale rivendica il diritto dell’uomo alla vita e magicamente irradia di rosso l’universo, per capovolgerlo, reinterpretarlo e poterlo così vedere sotto una nuova luce. Secondo Dolfi la musicalità in questa lirica è totale, poiché avvolge il lettore stesso e lo scuote con il suo ritmo[vii]. Questa è una danza di unione, che permette di unire individui diversi come Matacotta e il partigiano Montegallo sotto un’unica bandiera, quella della libertà. Il ritmo rabbioso, rosso della fisarmonica esprime anche le necessità della lotta per raggiungere l’azzurro e bianco della bontà e della serenità. Già nella Lepre bianca egli ci consegna una scala cromatica delle sue emozioni:

Tutto era mobilità, metamorfosi. Il mare, spruzzo azzurro, la Terra, polvere nera. Il cielo nebbia blu. Perfino i miei pensieri e i miei sentimenti erano aliti colorati. Bontà, bianco. Amore, giallo. Pazienza, marrone. Odio rosso[viii].

Secondo Dolfi «Fisarmonica rossa è, dunque, una raccolta di liriche, ispirate dalle note dello strumento popolare marchigiano, il quale si rivolge a tutta l’umanità, perché rappresenta il distacco di una condizione sociale inattiva»[ix]. A tal proposito, Matacotta ci dice:

«Ero un uomo, un uomo che andava in cerca di difesa contro quei giovani pieni d’odio, e il peso sulle spalle era come il peso di tutta la mia vita di ragazzo, gli stessi stracci, le stesse cose lacerate, gli stessi errori, gli stessi supplizi, la lunga assenza dal terreno quotidiano del vivere, il mio lungo torpore. E rivedendo la mia vita con Bella, tutta la pigrizia, non solo dei gesti, ma anche dell’intelligenza, come un prezzo che io non fascista, ma preso nel gioco del fascismo, avevo pagato al fascismo per non entrare nel suo gioco. Ma era esso stesso un fascismo, perché ero stato assente, e con la mia assenza avevo consentito io pure al fascismo di avanzare e crescere, standomene seduto nel mio olimpo di dolcezza»[x].

I temi che si vengono sviluppando all’interno dell’opera hanno l’esigenza del superamento della situazione di stallo, come se si volesse sopperire per mezzo della letteratura alla mancata partecipazione attiva antifascista da parte del poeta. Ma la guerra aveva sancito per gli uomini di cultura, come ci dicono Dolfi[xi] e Valentini[xii], anche uno stallo intellettuale. Il neorealismo, che stava sorgendo in quegli anni, traeva nutrimento dalla consapevolezza del fallimento della vecchia classe dirigente e del posto che, per la prima volta nella storia, si erano conquistate sulla scena della società civile le masse popolari.

Tornando a Fisarmonica rossa essa è una densa e dolorosa silloge di poesia, ove il dolore è tangibile e sovrasta ogni altra sensazione. L’opera è vergata su carta con un linguaggio duro, tagliente, aspro e senza possibilità di redenzione. Le immagini, icastiche e pregne di una desolazione morale vergognosa, «si trasmettono al lettore come vere e proprie pugnalate capaci di inasprire il tormento di chi, imbevuto di lotte civili e amico dell’intera umanità, sente ancora oggi sulla sua pelle – sebbene non abbia vissuto direttamente le vicende – l’ingiuria subita da un popolo che significò lo svilimento della coscienza, la mortificazione delle carni, l’autodistruzione del genere umano»[xiii].

Un esempio emblematico di questa poesia ci è fornito con il componimento “Ottobre 1942” ove Matacotta mostra la prevaricante stanchezza e derelizione dinanzi a una condizione snervante e dolorosa che si protrae con la guerra: «Ce ne stiamo rigidi e murati / Con le cataratte sugli occhi. / Il vento s’è messo a urlare, / E buio, tenebra sul mondo»[xiv]. Matacotta, come sottolinea Spurio, ci fornisce immagini dove è l’asfissia del colore, l’annullamento della vita, il buio a dominare, l’uomo è descritto nel suo stato di spersonalizzazione, come fosse una cosa ed avesse perso la sua identità e con essa anche le facoltà tipiche dell’uomo: non parla, non guarda non si muove[xv]. Continua poi dicendo che nessun organo si muove più, lo dice però utilizzando una sineddoche fisiologica dove gli organi che non si muovono non sono altro che il cuore che, impietrito e affranto, sembra aver perso il suo battito, la sua vitalità e con esso anche i polmoni, induriti e pietrificati[xvi]. Il corpo dal cuore impietrito, è ormai non più umano, poiché imbruttito dalla barbarie della guerra che allontanano l’uomo stesso dal genere umano. Nel poeta fermano vi è una predilezione per un linguaggio prettamente materico e fisico, con ampia frequenza di materiali, tanto naturali che dell’edilizia, sembra essere una costante: «si tratta di materiali che si caratterizzano per essere freddi, inermi, pesanti, fastidiosi al contatto con l’uomo di carne ed ossa: il nostro parla di “polvere e piombo nel cervello” ad intendere forse, nella polvere la vacuità del senso della ragione, la perdita irrecuperabile della coscienza e nel piombo l’esposizione alle mitraglie e alle armi del conflitto»[xvii].

La costante situazione di sofferenza e morte dettata dall’occupazione e dalle rappresaglie, non permette all’uomo di abituarsi, poiché esso per sua natura fugge le barbarie e la violenza. È a questo punto che la lirica diviene un mezzo di riflessione su cui riflettere. I temi della Fisarmonica sono ormai chiari nella mente del poeta, che coltiva instancabilmente le sue nuove passioni ideologiche: «Di nuovo scrivevo versi. Con parole nuove, forti. Li scrivevo durante le mie galoppate in bicicletta di giorno e di notte, nei momenti più impensati. Le immagini mi nascevano nelle volate a capofitto per le discese delle colline o girando pei campi o seduto sulle logge delle case coloniche col bicchiere del vino cotto in mano aspettando i PW. Annotavo i versi in fretta sul taccuino e lo nascondevo sotto la tuta. Incrociando i camion tedeschi la sola preoccupazione era di salvare quel fascio di foglietti segnati a lapis dove era la mia vita e la mia disperazione d’allora, e anche la disperazione della gioventù italiana, il sangue la fede l’amore di quanti combattevano per sopravvivere…»[xviii]. Il poeta fermano, come già detto in precedenza, cerca di sostituire il mancato apporto attivo tra le fila della resistenza con l’epicità della narrazione poetica. L’accettazione passiva del fascismo era soppiantata dalla fede nella poesia, la quale rappresentava l’unico appiglio alla vita per l’uomo, soverchiato dalle dolorose prove della guerra[xix]. La negatività della guerra e l’inutile certezza del dolore, temi profondamente neorealisti, temi profondamente intrisi di neorealismo, sono i motivi ispiratori di Fisarmonica rossa. La parola poetica di Matacotta è sempre tesa tra la rassegnazione e la rivolta, un po’ uno specchio della vita. Il tutto è avvolto da un climax espressionistico che molto richiama le pellicole di Fritz Lang[xx]. Nella sua poetica, come sottolineato da Dolfi, è presente anche un chiaro richiamo ai quadri di Kirckner, Grosz e Munch, l’urlo stesso, come ci suggerisce Valentini, è l’emblema poetico di Matacotta[xxi]. «L’urlo, nell’espressionismo tedesco, rappresenta il passaggio dalla luce impalpabile dell’impressionismo al chiarore cristallizzato e geometrico dell’avanguardia, “ogni macchia di colore, ogni membro del verso è un urlo, una sferzata, uno scoppio; la realtà intera sembra presa da un folle dinamismo spasmodico”»[xxii]. Per Matacotta invece il grido/urlo è «il gesto, la qualità della musica. Così rotta, strangolata dal fragore. Questo fragore di cembalo e di sputi… qualcosa di torbido, nel fondo sotto lo spessore delle immagini, verde e trasparente»[xxiii]. La guerra ha costretto l’uomo al silenzio, che però non è un silenzio vero e proprio, ma un fragore soffocato di cembali e sputi, come tale rappresenta una metamorfosi paradossale dell’urlo. Quello di Matacotta non è un urlo esteriore, ma interiore, uno di quelli che logora dentro, proprio come i segni della guerra hanno logorato il poeta. «Nel silenzio si preannunzia o si manifesta una visione tragica il cui correlativo è l’urlo, sia pure interno, dell’anima»[xxiv]. L’uomo tace e soffre nel dolore ma, ma proprio come nell’opera di Toller, «il silenzio vibra nello spazio ed esplode nel grido»[xxv]. Matacotta si appropria di tutti i postulati fondamentali dell’espressionismo e propone una parola poetica battuta dal terrore del fascismo, mortificata e avvilita, ma sempre pronta alla sfida e al duello:

E qua chi cerco? Dove sono i campi

perduti nei crepuscoli viola?

Nel fragoroso turbine dei lampi

Ritrovo la mia casa vuota e sola

*

Siamo accecati d’odio e di dolore

Mordiamo a sangue l’aria dura e avara

Ma per salvarti abbiamo ancora il cuore,

o Italia, cagna nera, patria cara![xxvi]

La poesia muore nei campi di battaglia, ma risorge nella parola degli uomini, che portano dietro memoria dell’accaduto:

Io so dove sono le mie mani

I miei piedi e la mia bocca.

Essi affermano battono mordono

Il sapore nudo della terra.

*

E con questo gusto di morte

Di polvere di radici e di gelo.

Ricomporrò la mia sorte

Per abbattere con un grido il cielo[xxvii].

Un grido decreta la vittoria della poesia, poiché il grido è strazio e vita allo stesso tempo[xxviii]. Il poeta fermano è costantemente teso tra l’innocenza personale e il delitto, tra il desiderio di parlare lasciando testimonianza e l’impossibilità del silenzio, «tra il fascino dell’eroe e il fallimento del santo»[xxix]. Lo sguardo poetico matacottiano è perduto nelle tenebre della coscienza e la sua ambivalenza intrinseca dell’essere poetico, non si risolverà mai. Per Matacotta, come ci suggerisce Delfi, si può parlare di “poesia equivoca”, intendendo come equivocità la tensione tra l’urlo della disperazione individuale e l’ideologia, la quale esprime l’esigenza di società, di comunione collettiva[xxx].

Franco Matacotta

La matrice autobiografica in Matacotta è sempre molto forte, ma quali influenze letterarie subì? Per rispondere a tale quesito ci sovviene in ausilio il critico letterario sangiorgese, Alfredo Luzi, con vari suoi saggi[xxxi]. Naturalmente anche l’educazione letteraria e poetica che ricevette durante gli anni del liceo ebbe un peso[xxxii]. Il poeta fermano, nella Confessione di un figlio della vecchia Europa, dichiara di aver avuto: «un’educazione letteraria squinternata in tutti i sensi. A nove anni il Capitale di Marx… per gli esercizi di analisi logica… Più tardi ebbi in mano Hugo e Tolstoj. Al liceo comprai lo Zarathustra di Nietzsche. Più tardi fu Emerson a innamorarmi… poi Whitman, col suo canto terrestre»[xxxiii]. La conoscenza della grande poesia francese gli giunse invece attraverso Acruto Vitali, poeta del quale ho già parlato[xxxiv], grande lettore di Rimbaud, Baudelaire e Valery[xxxv]. La formazione vera e propria per il poeta fermano, come già detto, arriva solo con la Aleramo e lo studio della poesia amorosa di D’Annunzio, Omar Kayyam, Sand, Barrett Browning, Colette, Lawrence[xxxvi]. Lo studio di Leopardi invece sarà una costante che accompagnerà il poeta per tutta la vita, come sottolineato da Valentini[xxxvii]. Durante il periodo trascorso a Capri assieme a Sibilla, egli rilegge Leopardi e traduce Lucrezio[xxxviii]. Inoltre, scopre Rilke, Heine e Hölderlin[xxxix]. Da questi poeti trae «quel senso di nostalgia della bellezza radicata profondamente in un presagio cosmico di distruzione»[xl]. La poesia di Matacotta come osservato da Valentini, Luzi e Manacorda, avendo tale sostrato di base, è di estrazione colta. I Poemetti[xli], pubblicati a Roma nel 1941, sono intrisi di suggestioni dannunziane, leopardiane, ungarettiane, mallarmeane e campaniane[xlii]. Inoltre, in tale raccolta la poesia è concepita secondo il costume latino, cioè come mezzo privilegiato di conoscenza della realtà[xliii]. Nella raccolta il Poeta definisce più volte la parola: «Fossili dissepolti le parole» (p. 15); «questo peso / di aride parole» (p. 32); «Dimore del silenzio, marmi, antiche / vi chiedo parole» (p. 33); «O desolato atteggiamento della parola» (p. 59); «Parole, o voi, perenni arcobaleni / fra il mio silenzio e il cielo» (p. 63)[xliv]. La parola è sì salvifica, ma è una parola ungarettiana, martoriata. Di fondo appare una tensione costante verso la parola pura, ma come ogni tensione nel suo percorso si imbatte in «una serie di scacchi e di sfiducie»[xlv].

In Matacotta la parola nel suo hapax è ponte tra il silenzio e il cielo, tra il dolore e l’urlo. Ciò molto richiama la concezione valeryana dell’esperienza del vivere sottesa tra il dolore e la totalità del sublime[xlvi]. Tale legame è concepibile solo se si pone la parola al di fuori della temporalità, essa dovrà essere fossile e moderna allo stesso tempo. Ma essa dovrà essere posta anche al di fuori del concetto spaziale e deve essere essa stessa fondatrice cosmica[xlvii]. La parola secondo Matacotta[xlviii], proprio come la concezione simbolista moderna, deve essere essa stessa legislatrice e generatrice di mondi. Ci sovviene in aiuto un autogiudizio del poeta: «Avuta l’intuizione lirica fulminea io non la resi se non attraverso una quantità di approssimazioni melodiche. La stessa umanità io la sentii in fusione con le pietre con le piante con le nubi con le stelle. Situazioni, atmosfera, parole che io resi, ma come una nebbia, talvolta come una fiamma, che lascia sempre poi storditi e insieme inappagati. Io mi rivolsi a un mondo arcano, dando di esso accenti dispersi, sparsi, incerti»[xlix]. Parte di questo brano la troviamo all’interno del Diario della Aleramo: «Franco ha l’intuizione lirica fulminea, ma poi non la rende se non attraverso una quantità di approssimazioni melodiche. E dato che il mondo delle sue intuizioni è, come dicevo, più cosmico che umano, e la stessa umanità è da lui sentita in fusione con le pietre con le piante con le nubi con le stelle, quella mancanza di ossatura è doppiamente dannosa ai fini dell’espressione»[l]. L’Aleramo coglie come un difetto l’impianto di base dei Poemetti[li]. Rovesciando la prospettiva di Sibilla si può affermare che le singole poesie che vanno a comporre l’opera non sono concepibili singolarmente e non hanno vita autonoma, ma partecipano a un sistema simbolico complesso e articolato, nato dalle febbrili esaltazioni giovanili del poeta[lii]. A quali simboli fa riferimento il Poeta fermano? L’introduzione ai Poemetti è costantemente costellata da Alberi celesti:

In quelle strane e luminose fronde

dimorano i celesti. Non i vani

esilii dei beati, ma le eterne

idee, le memorie, e le beate

apparenze solenni. E solitarie,

ravvisano la terra. Ah, nello specchio

di questa stella smemorata dormono

le native sorelle, e le pietose

gridano, apparendo dai notturni

orti del cielo, e le fan deste, e insieme

un amoroso vento le alimenta

che confonde la terra ai firmamenti[liii].

Francesco Monterosso eteronimo di Franco Matacotta

Compito del poeta è quello di esaltare e riportare alla memoria collettiva delle immagini primordiali del mondo delle idee. I simboli non sono arbitrarie decifrazioni, come nella stagione simbolista, ma concrezioni di materia ctonia e cosmica[liv]. Questo è un elemento di novità assoluta sfuggito completamente alla critica sino alla fine degli anni Cinquanta[lv]. Il declinare l’immagine in modo archetipico rappresenta invece una via del tutto nuova, pregna di un pragmatismo del tutto assente nella poesia italiana di quegli anni. È pur vero che i Poemetti contengono evidenti imperfezioni, sbandamenti ed equivoci del testo, ma sono proprio questi elementi a superare la rigidità schematica dell’impianto dei Poemetti[lvi]. Ma quali sono le immagini più ricorrenti nella poetica di Matacotta? In primis la notte costituisce il regime di immagine di tutta la poetica del Poeta fermano, dai Poemetti a Fisarmonica rossa, sino alle raccolte tarde ove la notte spesso diviene oscurità. La notte è sempre percepita come fuori e dentro di noi allo stesso tempo, essa però è presenza inquietante e ambigua. Essa è sempre legata al sogno e alle immagini più torbide: «Tu che affini ai terrori i denti neri / tu che alimenti i mali pensieri, / Furia notturna, placati»[lvii]. E ancora: «O sera, / poi che di gelo se circonda l’ombra / e di fiochi lamenti addorme il giorno, / steso nel soffio del notturno vento / a me scendeva il sogno …»[lviii]. Continua: «la notte agitatrice di larve e di paure»[lix]. È quindi tempo mistico, sede di sogni e avvenimenti misteriosi. La notte matacottiana racchiude in sé molto del credo e del folklore tipico del sud delle Marche, legato ai canti notturni delle streghe e ai pastori e alle leggende sibilline[lx]. La notte è sempre concepita come un momento magico dove realtà, fantasie e paure vanno a costituire un’unica miscela. Nei Poemetti e in Fisarmonica rossa è presente una complessa e difficile ermeneutica dei sogni, un loro essere polisenso, per cui spesso le immagini, seppur diverse tra loro, hanno una doppia valenza, o comunque si presentano sempre sotto il segno dell’ambiguità[lxi]. La doppia valenza della notte è immediatamente percepibile, da una parte come buio carico di terrore e mistero, ma dall’altra la notte è candida luce solare[lxii].

Mi duole averti nel tuo fosco bacio,

Notte, che fiore delle mie labbra imbruni

E me d’artiglio pugni qui sul casto

Ciglio dell’ombra ove la nube spira…

Ma dal paese

di questa voce naufraga nel nulla,

mi salvi, luna, che i celesti campi

tacendo trascorri impallidita,

tu priva di pietà, arido giglio,

che l’acre vento delle notti sfiora[lxiii].

La luna con la sua luminosità e la sua purezza inscalfibile può essere un punto di riferimento, nel baratro del nulla cosmico costituito dal buio notturno in cui è spinto l’uomo. Tale visione lunare dona a Matacotta un alone leopardiano più volte sottolineato da Valentini e Verdino[lxiv]:

Un caldo

Colorar delle rose sulle guance

A me invidiate dalla luna[lxv].

Ma a differenza dal Poeta recanatese, il difficile e complesso dialogo tra l’uomo e la luna è causato non dalla dura Natura, ma da una condizione umana di perenne esilio terrestre:

me nell’esilio della terra,

cigno

di funesti lamenti[lxvi].

Continua ancora il poeta:

È dolce anche l’esilio sulla terra[lxvii].

E ancora:

Isole della terra… e mai giunga dolente a quelle rive e trovi

L’esilio tra gli uccelli tenebrosi[lxviii].

Il tema dell’esilio terrestre è ben consolidato nella storia della letteratura italiana e straniera e spazia da Baudelaire a Quasimodo. In questa sede ricordiamo che è proprio in questo periodo che si sta imbevendo di tutta la grande poesia francese da Baudelaire a Valéry, passando per Rimbaud. «La condizione d’esilio farà sì che nel testo vengano invocati i difficili punti di reintegrazione in una patria o pace cosmica ed esaltante, pertanto, le diverse immagini che partecipano alla dimensione dell’agognata purezza, anche se spesso tali immagini sono misurate dallo scacco umano per il loro utopico raggiungimento»[lxix].  La poesia di Matacotta di questo periodo deve molto anche ad Ungaretti, in lui le isole ungarettiane sorgenti di idillio, acquisiranno una valenza mitica e mitologica, costituiranno punti d’approdo cosmici e celesti: «rosse isole»; «E voi cinte di rosee ire di venti, / isole della terra»; «Ardono i regni delle pie Comete, / l’isole prime delle stelle»[lxx]. Il bisogno della purezza, la continua ricerca del cosmico e del celeste è maturata, non solo come letture poetiche, ma come bisogno del proprio io. È la sua ansia, il suo vivere la vita notturna che lo portano a ricercare la pace e la tranquillità, e dal 1945 in poi ci si metteranno anche i traumi lasciati dalla guerra. Tutto questo mondo nei Poemetti si coagula in due immagini aeree costanti e onnipresenti: le nubi e gli uccelli. Le nubi sono sempre presenti come costante termine di discorso[lxxi]. Molto più complessa e articolata è la presenza degli uccelli, spesso si tratta di colombe, emblema di libertà, cristallizzate nei loro voli e movimenti. Gli uccelli, come osserva Verdino e in seguito Luzi[lxxii], sono anche testimoni del dolore, che a volte si collega alla preghiera: «Un lamento d’uccelli chiusi in urne»[lxxiii]; «le colombe intonano il lamento»[lxxiv].

Matacotta nel 1948 pubblica Naialuna [lxxv]. L’agile volumetto raccoglie i versi composti tra il 1941 e il 1942. Il giovane artigliere, ancora non consapevole ideologicamente, inizia però a rendersi conto della potenza e dell’incisività della parola poetica. Come riporta Valentini, i versi di quest’opera testimoniano anzitutto un primo modo di resistere, non ancora con la maturità di Fisarmonica rossa, ma con la speranza di una resistenza individuale e doverosamente individualistica[lxxvi]. «Il poeta e la sua luna sopravvivono nel soldato e nella sua naia: ma sopravvivono al prezzo di un incipiente lacerazione»[lxxvii]. Il poeta vive un continuo scontro, quello tra il Paradiso della memoria[lxxviii] e l’inferno della guerra vissuto in Sardegna. I due temi leopardiani della giovinezza e del morto giovane[lxxix] che a loro volta richiamano temi legati a Catullo e Foscolo[lxxx], in Matacotta rivivono e si innestano con la tragedia della guerra e l’inutile spreco di sangue di ragazzi ad essa legato. Tutta l’esperienza poetica di Matacotta sarà incentrata sulla compresenza della dicotomia vita-morte, all’interno della contingenza di bene e male. In Naialuna il poeta non ha ancora raggiunto una sua autenticità autorevole, perciò le fonti emergono in filigrana: si va dal D’Annunzio panico a Pascoli, Gozzano, Montale, Garcia Lorca e Leopardi, passando per la concezione della memoria come luogo di conoscenza petrarchesca[lxxxi]. In Matacotta il tanto amato orfismo romantico ritornerà con Ubbidiamo alla terra, raccolta pubblicata nel 1949[lxxxii]. Questa raccolta rivive a pieno tutto il suo amore per il romanticismo e per l’orfismo, da Novalis a Campana, da Fichte a Nietzsche, ma naturalmente risuonano rombanti anche Pascoli e Leopardi[lxxxiii]. Però questa è soprattutto una poesia dei dilemmi e degli interrogativi, del fine ultimo del mondo e del ruolo umano[lxxxiv]. L’impegno politico in lui inizia a farsi sempre più presente a partire dagli inizi degli anni ’50 e ciò influenzerà anche le sue scelte letterarie. Nel 1953 egli riunisce nel Canzoniere di libertà tutte le sue opere di carattere politico e civile[lxxxv]. Inoltre, torna allo pseudonimo di Francesco Monterosso, utilizzato per le sue prime comparsate in giornali e riviste. Cerca un macchinoso ritorno laboratoriale alle teorie del realismo socialista, ma che in realtà si rivelerà becero populismo. «Se le liriche di Fisarmonica rossa si salvavano proprio per la loro violenta soggettività, per quel loro riferirsi ad un nodo unico di emozioni e sensazioni che è l’individuo del poeta, le poesie del Canzoniere risultano velleitarie proprio nel volere aprirsi verso una simbolizzazione corale e collettiva della storia di un intero popolo»[lxxxvi]. Da questo momento in poi la voce del poeta inizia a perdere di autenticità, senza più ritrovare quella solenne franchezza tanto apprezzata dalla critica. Successivamente ripiegherà nella narrazione dell’ambiente famigliare, ma anche questa nuova strada non fu apprezzata dalla critica, che in poco tempo lo fece sparire nell’anonimato.


[i] Istruttore direttivo della Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo.

[ii] F. Fortini, Introduzione, cit., p. 9.

[iii] A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione, in, a cura di G. Morelli, Franco Matacotta, Atti del convegno di studi, Bergamo, 1987, p. 19.

[iv] L. Dolfi, Il suono della fisarmonica, in a cura di G. Morelli, Franco Matacotta, Atti del convegno di studi, Bergamo, 1987, pp. 51-70.

[v] Ivi., p. 51.

[vi] F. Matacotta, Fisarmonica rossa, Urbino, 4 venti, 1980, pp. 47-48.

[vii] L. Dolfi, Il suono, cit., p. 51, Cfr. A. Valentini, Il Leopardismo, cit., p. 78.

[viii] F. Matacotta, La lepre bianca, cit., p. 101.

[ix] L. Dolfi, Il suono della, cit., p. 52.

[x] F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, a cura di F. Monterosso, inedito, p. 454.

[xi] L. Dolfi, Il suono della, cit., pp. 52; 56.

[xii] C. Verducci, Franco Matacotta, cit., p. 18.

[xiii] L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossa

di Franco Matacotta, in Blog di Letteratura e Cultura, 27/01/2016, https://blogletteratura.com/2016/01/27/il-partigiano-annientato-in-fisarmonica-rossa-di-franco-matacotta-a-cura-di-lorenzo-spurio/

[xiv] F. Matacotta, Fisarmonica rossa, Urbino, 4 venti, 1980, p. 41.

[xv] L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossa

di Franco Matacotta, in Blog di Letteratura e Cultura, 27/01/2016, https://blogletteratura.com/2016/01/27/il-partigiano-annientato-in-fisarmonica-rossa-di-franco-matacotta-a-cura-di-lorenzo-spurio/

[xvi] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 14, Cfr L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossa

di Franco Matacotta, in Blog di Letteratura e Cultura, 27/01/2016, https://blogletteratura.com/2016/01/27/il-partigiano-annientato-in-fisarmonica-rossa-di-franco-matacotta-a-cura-di-lorenzo-spurio/

[xvii] L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossa

di Franco Matacotta, in Blog di Letteratura e Cultura, 27/01/2016, https://blogletteratura.com/2016/01/27/il-partigiano-annientato-in-fisarmonica-rossa-di-franco-matacotta-a-cura-di-lorenzo-spurio/

[xviii] F. Matacotta, Confessione di un figlio, cit., p. 471.

[xix] L. Dolfi, Il suono della, cit., p. 54.

[xx] Ibidem; A. Valentini, Il Leopardismo, cit., p. 78.

[xxi] Ibidem.

[xxii] L. Dolfi, Il suono della, cit., p. 55; L. Mattner, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1975, pp. 28-29.

[xxiii] Archivio famiglia Matacotta, F. Matacotta, Passeggiata romana, inedito, pp. 5-6.

[xxiv] L. Mattner, L’espressionismo, cit., p. 43.

[xxv] Ivi., p. 46.

[xxvi] F. Matacotta, Fisarmonica rossa, cit., p. 16.

[xxvii] F. Matacotta, Fisarmonica rossa, cit., pp. 21-22.

[xxviii] L. Dolfi, Il suono della, cit., p. 56.

[xxix] Ibidem; sul fallimento del santo si veda anche A. Valentini, Il Leopardismo, cit., p. 79.

[xxx] L. Dolfi, Il suono della, cit., p. 57.

[xxxi] In particolare: A. Luzi, Introduzione a F. Matacotta, La lepre bianca, Milano, Feltrinelli, 1982 e A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 18-20.

[xxxii] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 19.

[xxxiii] F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, a cura di F. Monterosso, inedito, p. 28.

[xxxiv] R. Renzi, Acruto Vitali: dalla poesia alla pittura, in Letteratura e Pensiero, n. 16, 2023, pp. 231-236.

[xxxv] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 20. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta, in a cura di G. Morelli, Franco Matacotta, Atti del convegno di studi, Bergamo, 1987, pp. 37-50.

[xxxvi] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 20.

[xxxvii] A. Valentini, Il Leopardismo, cit., p. 82.

[xxxviii] S. Aleramo, Dal mio diario 1940-1944, Roma, Tumminelli, 1945, p. 321.

[xxxix] Ibidem.

[xl] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 20.

[xli] F. Matacotta, Poemetti, Roma, Edizioni di Prospettive, 1941. Raccolgono le liriche che vanno dal 1936 al 1940.

[xlii] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., pp. 20 – 21.

[xliii] S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti, in a cura di G. Morelli, Franco Matacotta, Atti del convegno di studi, Bergamo, 1987, pp. 37-50.

[xliv] F. Matacotta, Poemetti, Roma, Edizioni di Prospettive, 1941.

[xlv] S. Verdino, Immagini, cit., p. 37.

[xlvi] S. Verdino, Immagini, cit., p. 37; Valéry esercitò una profonda suggestione al tempo dei Poemetti. Scrive Matacotta nel volume inedito Le confessioni di un figlio della vecchia Europa: «Ero ormai incatenato in questa foresta di simboli nella quale Bella (l’Aleramo) aveva avuto l’astuzia di affidarmi la parte di protagonista. Ero come l’organizzatore di quella vasta officina di sensazioni fisiche, quasi avessi avuto dalla mia epoca il compito di raccogliere e registrare in un archivio tutte le emozioni spirituali e casuali di una generazione in sfacelo già prossima a perire. Cimitero marino, è questo il titolo più appropriato di quella nostra rappresentazione caprese? Leggevamo allora Valéry. Mi estasiavo dinanzi al Fragment du Narcisse. Bevevo quella luce grigiodorata dei versi di Charmes simile alla luce d’autunno delle epigrafi tombali. Il medesimo freddo luccicore dei pini il medesimo ronzio di api e vespe, mentre la Jeune Parque mi chiamava diritta sulle soglie del secolo ventesimo scaldando al sole il suo funebre sesso divoratore come un ultimo esemplare di umanità femminile gravida di 100 anni di esperienze e vittorie senza più segreti da offrire».

[xlvii] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 23; Cfr. S. Verdino, Immagini, cit., p. 37.

[xlviii] F. Matacotta, Poemetti, cit., p. 22.

[xlix] Questo appunto si trova su un foglietto sciolto dell’Archivio di Emma Marini Matacotta.

[l] S. Aleramo, Un amore insolito, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 36.

[li] Ivi., pp. 36-38.

[lii] S. Verdino, Immagini, cit., p. 38; «Io vissi come per un mirabile delirio in zone abitate dall’acqua dai raggi delle rupi e del fuoco, simile a un vagante uccello» da un foglio sciolto dell’Archivio di Emma Marini Matacotta.

[liii] F. Matacotta, Poemetti, cit., p. 3.

[liv] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 25; Cfr. S. Verdino, Immagini, cit., p. 39.

[lv] Anche ad un critico fine come Jacobbi, che ebbe sempre grande simpatia per Matacotta, sfuggi completamente tale elemento.

[lvi] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 24.

[lvii] F. Matacotta, Poemetti, cit., p. 16.

[lviii] Ivi., p. 39.

[lix] Ivi., p. 31.

[lx] Per le leggende dei monti sibillini e al folklore rurale ad esse legato si rimanda a Diego Mecenero, esperto di francescanesimo e folklore nel sud delle Marche.

[lxi] S. Verdino, Immagini, cit., p. 40. Cfr. per Fisarmonica rossa L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossa

di Franco Matacotta, in Blog di Letteratura e Cultura, 27/01/2016, https://blogletteratura.com/2016/01/27/il-partigiano-annientato-in-fisarmonica-rossa-di-franco-matacotta-a-cura-di-lorenzo-spurio/

[lxii] F. Matacotta, La lepre bianca, Roma, Nuove edizioni italiane, 1946, p. 12.

[lxiii] F. Matacotta, Poemetti, cit., p. 19.

[lxiv] S. Verdino, Immagini, cit., p. 40; Cfr. A. Valentini, Il Leopardismo, cit., p. 82.

[lxv] F. Matacotta, Poemetti, cit., p. 38.

[lxvi] Ivi., p. 19.

[lxvii] Ivi., p. 50.

[lxviii] Ivi., p. 59.

[lxix] S. Verdino, Immagini, cit., p. 41.

[lxx] F. Matacotta, Poemetti, cit., pp. 51, 59, 63.

[lxxi] S. Verdino, Immagini, cit., pp. 41-42.

[lxxii] S. Verdino, Immagini, cit., p. 42; Cfr. A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 24.

[lxxiii] F. Matacotta, Poemetti, cit., p. 43.

[lxxiv] Ivi., p. 63.

[lxxv] F. Matacotta, Naialuna, Fermo, Amici della Poesia, 1948.

[lxxvi] A. Valentini, Il Leopardismo, cit., p. 83; Cfr. A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 27.

[lxxvii] A. Valentini, La poesia di Franco Matacotta, in Piceno II, 2 dicembre 1978, pp. 7-29.

[lxxviii] All’interno c’è un frammento tradotto del Paradiso perduto di Milton. Cfr. A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 28.

[lxxix] Richiamo del bambino Milis.

[lxxx] A. Valentini, La poesia di Franco Matacotta, in Piceno II, 2 dicembre 1978, pp. 7-29. Cfr. A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 28.

[lxxxi] A. Valentini, Il Leopardismo, cit., p. 86; A. Valentini, La poesia, cit., p. 12; Cfr. A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 28.

[lxxxii] F. Matacotta, Ubbidiamo alla terra, Roma, Edizioni del Girasole, 1949.

[lxxxiii] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., pp. 28-29. Come riportato da Luzi, il naturalismo misterico pascoliano è costantemente filtrato dall’accordo tra natura e cultura leopardiano.

[lxxxiv] «Perché ti chiamo?; Per chi risplendi tu, fuoco del sole?; Per chi brilli, fiore?; Per chi sei fatto sole?; Per chi sospiri tu, vetro di voce? Questo mare di sangue, perché sole?» F. Matacotta, Ubbidiamo, cit., pp. 6; 9; 13; 35; 41; 45; 52.

[lxxxv] F. Matacotta, Canzoniere di libertà, Roma, La nuova strada, 1953.

[lxxxvi] A. Luzi, La poetica di Franco, cit., p. 29

Lascia un commento