Franco Matacotta: il poeta che innovò la lirica del secondo dopoguerra

di Riccardo Renzi[i]

Racchiudere in un unico testo critico la complessità di un intellettuale come Franco Matacotta, che spaziò dalla poesia al giornalismo, alla fine critica letteraria, è impresa assai ardua.

Matacotta nacque a Fermo l’11 ottobre 1916 da una famiglia di modeste condizioni economiche. L’amore per la letteratura e la poesia furono presenti in lui fin dalla tenera età, in particolare prediligeva i classici greci, che lesse e tradusse. All’età di sedici anni iniziò a collaborare al periodico L’Araldo, in cui pubblicò l’articolo Cultura fascista e la poesia Per i fatti di Traù. Nel 1935 conseguì la maturità e nel novembre dello stesso anno si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia di Roma, frequentandone i corsi tenuti, tra gli altri, da Gentile, Toesca e Sapegno. Fu fin da subito affascinato dalla figura di Giovanni Gentile, anche se il suo ardore per il fascismo durò ben poco[ii]. Agli inizi del secondo anno Accademico, conobbe di persona Rina Faccio, pseudonimo di Sibilla Aleramo, scrittrice celebre all’epoca, con la quale aveva avuto un fitto scambio epistolare, e con la quale iniziò un rapporto che, a fasi alterne, proseguì almeno fino alla fine degli anni Quaranta, e che la scrittrice nel suo Diario definì un «amore insolito», essendo lei già anziana[iii].

Possiamo tranquillamente affermare che questo incontro, dal punto di vista intellettuale, fu uno dei più determinanti nell’esperienza dello scrittore fermano, in quanto fu lei a fargli scoprire D. H. Lawrence, Colette, P. Valéry, O. Khayyam, e George Sand, e gli permise di studiare gli inediti di Dino Campana, che la stessa Aleramo custodiva, avendo avuto una relazione con il poeta[iv]. Matacotta rimase folgorato dalla poesia di Campana e da quegli inediti ne fece varie versioni critiche che pubblicò dapprima in Prospettive, poi nel volume D. Campana, Taccuino, a cura di Franco Matacotta, Fermo, Edizioni Amici della Poesia, 1949 [v].

Sibilla Aleramo (1919)

La scrittrice inoltre introdusse Matacotta nell’ambiente letterario e artistico romano, fu lei a presentargli Cecchi, Bontempelli, Alvaro, Moravia, Malaparte, Zavattini, Guttuso e Fazzini. La figura di Sibilla Aleramo fu importante per tutto l’ambiente intellettuale fermano di quegli anni, poiché come ci dice Domenico Pupilli, testimone di seconda generazione di quella temperie culturale, essa fece quasi da «madrina a quei ragazzi fermani»[vi], Franco[vii], Gino[viii], Pino[ix] e Alvaro[x]. Sibilla spesso ospita questi ragazzi fermani amici del “suo” Franco nella sua soffitta: «Roma 21 gennaio, sera. Esattamente dopo un mese di accampamento qui nella soffitta, i due giovani han potuto oggi andare ad abitare in uno studio ceduto a loro da un amico»[xi]. I ragazzi in questione sono Gino Mecozzi e Giuseppe Brunamontini. Sibilla conosceva bene gli amici di Franco e l’ambiente intellettuale fermano, così scrisse del suo viaggio a Fermo nel settembre del 1944: «Giovani poeti che sono venuti a farmi visita qui nello studio di Franco. Con i fiori avevano mandato opuscoli di loro versi: per lo più di derivazione della scuola “ermetica”, Montale, Quasimodo… Più tardi imiteranno Franco […] ma è commovente questo amore per la poesia che in questi piccoli centri si perpetua nonostante la guerra»[xii]. Sibilla dunque conosce Fermo, e della piccola città collinare sente un insieme di fascino e insoddisfatta attrazione; come quando – svanito il lungo rapporto con Franco – passa in treno tra San Benedetto e Ancona, e annota, il 17 maggio del 1949: «in alto, sul poggio, poco fa, Fermo: la mia ultima illusione, Franco…»[xiii]. In lei l’amore per Franco fu sempre forte, sino alla morte, pur essendo conscia del grande divario d’età e dell’infattibilità della relazione stessa. Anni prima passando attraverso le terre marchigiane così le descriveva: «Lontano sorgeva una doppia catena di altezze, colline dinanzi, dietro gli Appennini. Borgate in cima a qualche poggio si sporgevano, evocando il Medioevo con le loro cinte merlate, con le casette brune raggruppate intorno a qualche campanile aguzzo. La campagna e il mare erano talora abbaglianti»[xiv]. Sibilla amò profondamente il Fermano e come ci dice in Dal mio diario 1940-1944, Franco rappresentava quel territorio, quella ruralità e quella poetica intrinseca dei luoghi.

Tornando al giovane fermano, egli si laureò il 14 luglio 1939 discutendo una tesi su Ungaretti, Campana e Aleramo. Nel 1941, dopo tanti articoli e poesie apparsi in varie riviste e testate, pubblicò la sua prima opera: Poemetti (1936-1940), Roma, Edizioni di Prospettive, 1941 [xv]. L’opera fu dedicata alla Aleramo, con la quale era ancora in stretto rapporto. La raccolta però non si ispira a quei poeti ermetici tanto studiati, ma privilegia una tonalità decisamente aulica, con reminiscenze dalla linea classica della lirica italiana, da Foscolo a Leopardi[xvi].

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, Matacotta nel luglio 1941 fu chiamato alla difesa della patria e destinato a Macomer, in Sardegna, come allievo ufficiale di artiglieria. Già da prima del 1939 aveva iniziato a prendere le distanze dal fascismo, ma l’impatto della guerra lo allontanò totalmente da quella ideologia e lo segnò per il resto della vita. Anche attraverso le conoscenze di Sibilla e spesso fingendosi malato riuscì ad ottenere permessi e ad allontanarsi spesso dalla Sardegna. Il giorno dopo l’Armistizio, assieme a Pratolini e Vedova, prese contatto con Lizzani, che ricopriva un ruolo primario nel Partito comunista italiano (PCI), per prendere parte alla lotta contro i Tedeschi. Ma entrò immediatamente nel loro mirino e fu costretto a rifugiarsi nella soffitta dell’Aleramo in via Margutta per sfuggire alle retate, in seguito riparò avventurosamente a Fermo e di qui a Monte San Giusto vicino a Macerata[xvii]. La partecipazione alla Resistenza, tanto quanto la chiamata alle armi, lo segnò profondamente fu alla base della raccolta di versi Fisarmonica rossa[xviii]. La barbarie della guerra, gli orrori e le devastazioni di essa sul territorio italiano, l’occupazione tedesca e le rappresaglie contro la popolazione civile, con lo strascico doloroso di lutti e di sangue, fanno da sfondo a un racconto poetico che privilegia il ritmo popolare della ballata e un linguaggio teso e fortemente improntato a un crudo espressionismo. Questi sono i caratteri distintivi della Fisarmonica, opera impregnata di sangue, sudore e sofferenza, probabilmente uno degli esempi meglio riusciti di poesia resistenziale. Quella di Matacotta è una poesia in presa diretta, scritta sotto l’incalzare di tragici eventi, come stanno a indicare spesso le date in calce ai componimenti[xix]. Dall’altra parte c’è la mitizzazione dell’evento, del fenomeno, intriso di pathos storico di un incipiente radicale cambiamento nella storia del mondo. Ci si rende conto del cambiamento che si sta vivendo.

Con la fine della guerra si chiuse anche il rapporto con la Aleramo, stando a Cavatassi e Verducci[xx] i due si incontrarono un’ultima volta nel novembre del 1947. La raccolta Fisarmonica rossa, fatte rare eccezioni[xxi], fu apprezzata fin da subito, così nel 1953 la ripropose all’interno di Canzoniere di libertà. Nella Prefazione alla riedizione dei Poemetti del 1998, così si esprimeva De Nicola[xxii]: «è uno dei pochi canzonieri sulla Seconda guerra mondiale e sulla Resistenza scritti in Italia»[xxiii]. Luzi ne darà vari giudizi, tutti molto positivi, uno dei più completi si trova in Introduzione a La lepre bianca dell’82: «Col suo linguaggio vivido e crudo, essenziale, rappresenta una rottura nella linea stilistica e tematica della poesia italiana»[xxiv]. Il giudizio di Valentini, come già spiegato in nota, divenne positivo solo a partire dagli anni Ottanta e nel 1987 in Il Leopardismo di Franco Matacotta, scrisse: «vuole restituire alle parole non la purezza che gli Ermetici perseguivano, ma lo spessore storico»[xxv]. Franco Fortini afferma che quelle «strofe sono scatenate e colorate»[xxvi]. Valentini negli anni Ottanta mutò così radicalmente il suo giudizio su la Fisarmonica rossa, che aprì il suo saggio, Il Leopardismo di Franco Matacotta, incentrando il discorso proprio sulla centralità di quest’opera per la letteratura italiana post bellica[xxvii]. Le criticità evidenziate da Valentini negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione dell’opera, non sono legate all’epopea delle vicende narrate, ma al linguaggio, considerato in un primo momento troppo vivido e sanguigno[xxviii]. Il contributo di Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta, origina dall’intervento di Mario Petrucciani[xxix] del 1972 tenuto a Recanati in occasione del II Convegno Internazionale di Studi Leopardiani. Petrucciani in quell’occasione andò a sottolineare la grandezza rivoluzionaria di Fisarmonica rossa, in quanto lontana dall’ermetismo, ma allo stesso tempo vicina al leopardismo e conscia di tutta la tradizione poetica precedente[xxx], da Valéry al Porto di Ungaretti, all’Ulisse di Seferis[xxxi]. Continuando a leggere la relazione di Petrucciani si evince però come lui vada a sottolineare anche un certo distacco dal leopardismo, poiché Matacotta nel poemetto vedeva l’Europa come «una luna / piena di crateri e di tombe»[xxxii]. Valentini parte proprio da questa affermazione per dimostrare invece quanto in Matacotta sia forte il leopardismo. Il poeta aveva detto della terra: «O desolato cranio del pianeta / fatto gemello dell’infelice luna». Ma tali affermazioni sono così lontane dal Poeta recanatese? Secondo Valentini, no. Infatti, va ricordato, per esempio, che nel Dialogo ad esse dedicato, la Terra si rivolge alla Luna chiedendole se sia vero «che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno? Che sei fatta, come affermano alcuni inglesi, di cacio fresco?». Inoltre, nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, si legge di una luna sitientis, arida, secondo Properzio[xxxiii]. Dunque, una luna molto simile a quella che ci descrive Matacotta. Valentini sottolinea come alcuni elementi molto presenti in Fisarmonica rossa sono ripresi da opere pubblicate o in via di pubblicazione dello stesso poeta fermano. La fisarmonica è un elemento già presente in Lepre bianca: «La fisarmonica suonava con il suo miele caldo che scioglieva l’asfalto della notte»[xxxiv]. Inoltre, nei Poemetti, precisamente nella Canzone del lupo d’agosto, è già presente il paragone tra uomo e lupo che ebbe poi molta fortuna in Fisarmonica rossa con il parallelismo con i partigiani imboscati[xxxv]. Secondo Valentini, l’operazione di rinnovamento compiuta nei confronti della poesia italiana da Fisarmonica rossa non fu dettata dal caso, ma una attenta elaborazione culturale nella quale confluirono, con la maturazione morale, lunghe letture di poeti italiani e stranieri ricondotti, nella circostanza, che da parte sua, poteva propiziare con la bella tradizione di lodi leopardiane, ieratiche e profetiche[xxxvi].

Tornando alla vicenda umana del poeta, che sicuramente non può prescindere da quella letteraria, concluso il Secondo conflitto mondiale, egli continuò a vivere attivamente e raccontare l’Italia del dopoguerra e degli anni Cinquanta e Sessanta. È del 1948 la breve raccolta Naialuna, con cui vinse il premio San Pellegrino[xxxvii]. Nell’opera il poeta sviluppa gli appunti poetici presi «durante il soggiorno in Sardegna, nel corso del tormentato periodo di servizio militare, quando era maturata la sua crisi esistenziale in una situazione di solitudine che aveva trovato corrispondenza nella natura selvaggia, pietrosa e solitaria dell’isola. I frequenti richiami mitologici e le reminiscenze leopardiane collegano questi versi ai Poemetti, di cui sembrano costituire una propaggine, piuttosto che a quelli legati all’impegno sociale e politico»[xxxviii].

Franco Matacotta (1916-1978)

Il suo primogenito gli nacque il 28 luglio 1948, Massimo, mentre nel 1956 il secondogenito Francesco Cino e, l’anno successivo, pubblicò, influenzato dalla nascita del figlio, la raccolta Ubbidiamo alla terra[xxxix]. Proprio in questa, come sottolineato da Valentini, si fa nuovamente vivo il suo leopardismo[xl]. Nel contempo il poeta passa dalle vicende nazionali e internazionali di Fisarmonica rossa all’ambiente privato, quello intimo e famigliare, alla ricerca di un nuovo equilibrio dopo la nascita del figlio. La cronaca e la grande poesia epica politicizzata tornarono però nel 1953, quando sotto lo pseudonimo partigiano di Francesco Monterosso, con il Canzoniere di libertà[xli], riprese i testi più politicizzati della sua poesia, senza peraltro riscuotere i consensi della critica che notò anzi il carattere retorico di gran parte delle liriche aggiunte con l’occasione; a essa seguì, nel 1956, con il medesimo pseudonimo la raccolta poetica I mesi[xlii] in cui riprende, nella prima parte, la pacificata tematica di Ubbidiamo alla terra, mentre, nella seconda, sviluppa ancora tematiche civili, questa volta collegando, sul filo della memoria privata e di quella storica, gli eventi drammatici degli anni della lotta antifascista. In quello stesso 1956, dopo gli eventi legati alla repressione sovietica in Ungheria, egli maturò la crisi che lo indusse a rompere e lasciare il PCI e a pubblicare, nel 1957, i Versi copernicani[xliii]. Questo momento risultò decisivo per la poetica di Matacotta, infatti dal 1954 al 1959 visse una profonda crisi ideologica che lo portò a un dubbio costante. «In esso predomina, accanto al senso profondo di radicamento nella sua terra e nei valori trasmessi per generazioni dalla sua gente, una meditazione profonda sulla morte e sulla vita come percorso faticoso nel dolore. Se Foscolo e Leopardi costituiscono i punti di riferimento obbligati del poeta fermano, sul piano sia tematico sia della scelta di una scrittura poetica tesa al sublime, occorre anche osservare che con il riaffiorare delle memorie familiari e infantili il tono dei componimenti tende a virare decisamente verso l’elegiaco e si evidenziano vistose sedimentazioni di ascendenza pascoliana»[xliv].

Matacotta, a parer mio, va ricordato in particolare per questo suo primo periodo di produzione, che va dall’esordio del poeta sino alla fine degli anni Cinquanta, quando le sue opere erano in grado di modificare e influenzare il corso della letteratura nazionale.

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[i] Istruttore direttivo presso Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo.

[ii] Per questa prima parte della biografia si veda: a: Mastropasqua, MATACOTTA, Franco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 72, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2008; G. Martinelli, Dizionario biografico di personaggi del Fermano, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, pp. 220-221; Franco Matacotta, in siusa.archivi.beniculturali.it, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche; L. Martellini, Franco Matacotta, Firenze, La nuova Italia, 1981, pp. 5-12.

[iii] S. Aleramo, Dal mio diario. 1940-44, Roma, Tumminelli, 1945, p. 22.

[iv] Per il rapporto che ebbe con la Aleramo e le influenze che essa ebbe su di lui, si veda: G. Armandi, Franco Matacotta: il poeta e l’uomo, in Omaggio a Matacotta, a cura di Luigi Martellini, Fermo, Tipolitografica Fermana, 1982, p. 27; D. Pupilli, Carte fermane: Figure e aspetti della cultura fermana contemporanea, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, pp. 173-175; S. Aleramo, Diario di una donna: inediti 1945-1960, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 476; G. Mecozzi, Conoscere il poeta, inserto dedicato a Franco Matacotta, in Garofano Rosso, anno III, n. 3, 17/11/1977.

[v] D. Campana, Taccuino, a cura di Franco Matacotta, Fermo, Edizioni Amici della Poesia, 1949.

[vi] D. Pupilli, Carte fermane: Figure e aspetti della cultura fermana contemporanea, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, p. 173.

[vii] Franco Matacotta.

[viii] Gino Mecozzi.

[ix] Pino era il soprannome di Giuseppe Brunamontini.

[x] Alvaro Valentini.

[xi] S. Aleramo, Diario di una donna: inediti 1945-1960, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 27.

[xii] S. Aleramo, Dal mio diario 1940-1944, Roma, Tumminelli, 1945, p. 320.

[xiii] S. Aleramo, Diario di una donna: inediti 1945-1960, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 236.

[xiv] S. Aleramo, Una donna, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2003, p. 110.

[xv] F. Matacotta, Poemetti (1936-1940), Roma, Edizioni di Prospettive, 1941.

[xvi] Sui suoi primi poemetti si veda G. Manacorda, I due modi della parola di Matacotta, in Omaggio a Matacotta, a cura di Luigi Martellini, Fermo, Tipolitografica Fermana, 1982, p. 11.

[xvii] Per tutto ciò che riguarda Matacotta durante la guerra e nel periodo post-bellico sino agli inizi degli anni Cinquanta, si veda C. Verducci, Franco Matacotta testimone del suo tempo, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, Fermo, Andrea Livi editore, 2018, pp. 7-15.

[xviii] F. Matacotta, Fisarmonica rossa, Roma-Milano, Darsena, 1945. Questa fu una delle prime opere pubblicate in Italia che andò a raccontare e mitizzare l’epopea della Resistenza.

[xix] Per il giudizio sull’opera Fisarmonica rossa ci si rifà a quelli recentissimi di Luzi e Pupilli, mentre Valentini non accolse l’opera entusiasticamente. Parlando dell’evoluzione poetica di Matacotta esprime un giudizio molto favorevole sull’opera anche Manacorda in Introduzione a F. Matacotta, La lepre bianca, Ancona, Il lavoro editoriale, 1999, p. 5.

[xx] C. Verducci, Franco Matacotta testimone del suo tempo, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, Fermo, Andrea Livi editore, 2018, p. 7; F. Cavatassi, Comunisti nel dopoguerra. Memorie e biografie dei militanti del Piceno, in I quaderni. Trimestrale dell’Istituto Gramsci Marche, n. 15/16, 1996, p. 70.

[xxi] Come detto nella nota n. 18, Alvaro Valentini inizialmente fu un po’ titubante, ma riapprezzò la raccolta negli anni successivi.

[xxii] Francesco de Nicola (Genova 1946) è professore di Letteratura Italiana Contemporanea nell’Università di Genova. Autore di numerosi volumi di critica letteraria, tra i quali Introduzione a Fenoglio (Bari-Roma, Laterza, 1989), Introduzione a Vittorini (ivi, 1993) e Neorealismo (Milano, Bibliografica, 1997), ha curato l’edizione di opere inedite o rare come Bandiera bianca a Cefalonia (Recco, Le Mani, 1996 poi Mondadori, 2001) di Marcello Venturi, Sull’Oceano (ivi, 2004) di De Amicis e recentemente Con Garibaldi alle porte di Roma (Sestri Levante, Gammarò, 2007) di A.G. Barrili. Autore anche di testi divulgativi, come Letteratura italiana contemporanea. Dall’unità nazionale all’era televisiva (Genova, De Ferrari, 2003), con Giuliano Manacorda ha pubblicato Tre generazioni di poeti italiani. Un’antologia del secondo Novecento (Caramanica, 2005). Dal 1974 è giornalista pubblicista e ha collaborato, tra gli altri, a “Il Secolo XIX” e “La Repubblica”. Dal 2001 è presidente del Comitato genovese della “Dante Alighieri”.

[xxiii] F. De Nicola, Prefazione a F. Matacotta, Poemetti, Milano, Viennepierre, 1998, p. 10.

[xxiv] A. Luzi, Introduzione a F. Matacotta, La lepre bianca, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 24.

[xxv] A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta, in a cura di G. Morelli, Franco Matacotta, Atti del convegno di studi, Bergamo, 1987, p. 72.

[xxvi] F. Fortini, Introduzione a F. Matacotta, La peste di Milano e altri poemetti, Ancona, L’Astrogallo, 1975, p. 10.

[xxvii] A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta, in a cura di G. Morelli, Franco Matacotta, Atti del convegno di studi, Bergamo, 1987, p. 71.

[xxviii] Tale giudizio è presente in due lettere inedite di Alvaro Valentini, una del febbraio del 1946 e una del luglio 1948, entrambe sono conservate presso l’Archivio del fondo Valentini della Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo, faldone n. 51.

[xxix] Mario Petrucciani nacque a Caserta il 23 febbraio 1924. Allievo di Giuseppe Ungaretti, fu uno dei più attenti critici dell’ermetismo e rivolse anche particolare attenzione allo studio di Dino Campana. Fu direttore della Fondazione Giuseppe Ungaretti e docente presso numerose università in Italia e all’estero; fu professore incaricato di storia della letteratura italiana moderna e contemporanea dal 1956, ottenne la libera docenza nel 1958 e l’ordinariato nel 1967, nella neonata facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Urbino, dove per alcuni anni insegnò anche storia delle tradizioni popolari e letteratura italiana. Terminò i suoi anni di insegnamento presso la prima cattedra di letteratura italiana contemporanea di Roma. Fu presidente dell’Istituto nazionale di studi romani, consigliere e fondatore della Fondazione Marino Piazzolla.

[xxx] M. Petrucciani, Leopardi nelle poetiche e nei poeti dell’ultimo trentennio, in Leopardi e il Novecento, Atti del II convegno internazionale di Studi Leopardiani, Recanati 2-3 ottobre 1972, Firenze, Olschki, 1974, p. 174.

[xxxi] Egli riporta tali osservazioni non solo negli Atti del convegno ma anche in M. Petrucciani, Segnali e archetipi della poesia: studi di letteratura contemporanea, Milano, Mursia, 1974, p. 32.

[xxxii] M. Petrucciani, Leopardi nelle poetiche e nei poeti dell’ultimo trentennio, in Leopardi e il Novecento, Atti del II convegno internazionale di Studi Leopardiani, Recanati 2-3 ottobre 1972, Firenze, Olschki, 1974, p. 174.

[xxxiii] G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, Firenze, F. Le Monnier, 1848.

[xxxiv] F. Matacotta, La lepre bianca, a cura di A. Luzi, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 176.

[xxxv] A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta, in, a cura di G. Morelli, Franco Matacotta, Atti del convegno di studi, Bergamo, 1987, p. 71.

[xxxvi] Ivi., pp. 72-73.

[xxxvii] A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 72 (2008).

[xxxviii] Ibidem.

[xxxix] F. Matacotta, Ubbidiamo alla terra, Rieti-Roma, Edizioni del Girasole, 1949.

[xl] A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta, in, a cura di G. Morelli, Franco Matacotta, Atti del convegno di studi, Bergamo, 1987, p. 75.

[xli] F. Matacotta, Canzoniere di libertà, Roma, La nuova strada, 1953.

[xlii]  F. Matacotta, I mesi, con prefazione di F. Flora, Milano, Schwarz, 1956.

[xliii] F. Matacotta, Versi copernicani, Firenze, Vallecchi, 1957.

[xliv] A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 72 (2008).

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