Minime glosse a “Museo dell’Uomo” di Plinio Perilli

di Marco Palladini

Museo dell’Uomo è un titolo frontale e impegnativo che subito rimanda al Musée de l’Homme, la grande istituzione etnografica parigina che intreccia nelle sue collezioni reperti preistorici, di antropologia biologica e di etnologia. Ma il libro poetico di Plinio Perilli (Editrice Zona, 2020, pp. 275, € 21,00) non ha tanto l’ambizione di proporsi come un compendio gnoseologico sulla vita e la storia dell’Anthropos dalle origini ad oggi, mira semmai a cantare e, assieme, a decantare la sua complessa e chiaroscurale vicenda in rapporto al suo cammino nella modernità. È infatti l’Uomo del Moderno il centro di questo libro ‘museale’. Ma la poesia di Perilli non svolge una museificazione-tumulazione dell’Anthropos, bensì una museificazione-celebrazione dell’Uomo nella cui interiorità egli scorge un brillìo: “Dentro l’Uomo è la luce: e noi dobbiamo / solo capirlo e attendere, infibrati sereni, / trasognare il mondo, rispettare l’offertorio / di gemme o frutti della vita…”. Dunque, l’Uomo di Perilli è l’uomo illuminato nell’animo, forse l’uomo illuminista, il protagonista di quella dialettica tra Kultur e Zivilisation, di cui, però, già Thomas Mann nella prima metà del ’900 denunciava la decadenza. L’Uomo portatore di luce (ergo anche luciferino) diviso tra ragione e fede, tra razionalità e destino o magari, secondo scriveva Dietrich Bonhöffer, tra “resistenza e resa”.

Il nome di Bonhöffer giunge propizio per ricordare che al pensatore teologico tedesco ucciso dai nazisti dedicò un libro (Un teologo contro Hitler, 2002) lo scrittore Eraldo Affinati, fraterno amico di Perilli, che con lui nell’estate del 1995 fece un pellegrinaggio a piedi da Venezia sino ad Auschwitz, là dove la storia dell’uomo occidentale conobbe il suo ‘cuore di tenebra’ assoluto. Ma anche di fronte alla visione del luogo princeps della Shoah, in cui risuona la basica domanda di Primo Levi (“Se questo è un uomo”), Perilli non si abbandona a un cedimento nichilista e scrive “… Dio del perdono / terribile nella Pietà, se ancora la Storia può epurarci / al vivere, a mai e mai credere che sia deposta la Morte, cupo / evento una Croce, irripetibile ma ripetuta: qui s’inginocchia // – dove alla mente s’oscurò il cielo, e l’anima terremotò”. È confidando nella terribilità di un “dio del perdono” che si è immolato sulla croce che si può ancora cercare di credere nell’Uomo, nella sua capacità di riscatto, nel suo sapersi rialzare pure dall’abisso del Male totale e totalitario che alberga dentro di lui. Se la ragione sprofonda nel buio (l’ebreo razionalista Primo Levi alla fine si suicidò, sentendosi colpevole davanti ai milioni di ‘sommersi’), la fede in un moto di resistenza si aggrappa, ancora e sempre, alla luce, per quanto fioca essa possa essere.

Tra i parecchi, precedenti libri poetici di Perilli, quello forse più importante è Preghiere d’un laico (1994) che vinse molti, significativi premi e soprattutto perché certificava, sin dal titolo, che per il poeta romano la poesia è una forma di preghiera pronunciata da un autore che, comunque, evita un tono sacerdotale o misticheggiante, che rimane una voce laica anche quando assume una intonazione alta, quasi solenne. Direi in proposito che l’enfasi lirica, la rotondità di stile sono tratti ineliminabili, strutturali della voce poetica di Perilli, che si concreta in un effluvio di scrittura piena, rigogliosa come un orto botanico gremito di stillanti e proteiformi versi. Una scrittura generosa, umorosa e amorosa, debordante nel suo afferrare il filo duraturo del vivere per urgenza destinale, per vibrazione quotidiana, per ricerca di senso spirituale.

Museo dell’Uomo, prefato autorevolmente da Giulio Ferroni e che ha una suggestiva copertina dove sullo sfondo di un nero teatrale o luttuosamente caravaggesco spiccano, quasi tridimensionali, due primitive sculturine che raffigurano “una coppia di Naga (popolo nativo della regione tra India e Myanmar)”, mi sembra il libro apicale, della consolidata maturità poetica di Perilli; il suo sottotitolo “poesie e poemetti 1994-2020” chiarisce che ha dietro un percorso di scrittura di oltre un quarto di secolo di grande coerenza e fedeltà a se stesso. Un vero breviario laico che soprattutto rifulge nei molti componimenti poematici a sfondo civile-politico. E mi ha colpito non solo e non tanto la porzione di testi dedicati alla Resistenza (per esempio a Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, partigiano ucciso dai partigiani comunisti filoslavi) o ai numerosi attentati terroristici degli ultimi due decenni (a partire dall’abbattimento delle Twin Towers), ma in primis il poemetto “Patria delle Patrie” dedicato ai giovani patrioti che morirono nel 1849 sul Gianicolo nell’ultima disperata difesa della Repubblica Romana. Perché lì c’è la scaturigine, in gran parte obliata, di un sentimento di amore patrio, di appassionato orgoglio nel sentirsi italiani, che il fascismo in gran misura deformò, strumentalizzò e pervertì sino a farlo sentire (a tanti antifascisti) estraneo e respingente. Ecco, Perilli riesce per via poetica a far rinascere quasi come nuovo quel sentimento dei ventenni che andarono a morire con sulle labbra il grido “Viva l’Italia!”. Così nei suoi versi “Ogni notte si ridesta – quel Reggimento di Eroi / e Roma bella dall’alto, tornano a guardarla / melanconici o fieri, ciascuno per suo conto… / Mameli coi suoi versi, e Dandolo, Morosini, Manara… / Quassù il Vangelo prese in sposa l’Utopia del Mazzini, / l’emozione, l’equazione semplice che ben pochi / accettavano: ‘Dio e Popolo’, ‘Pensiero e Azione’…”.

Il poemetto d’apertura “Adamo disteso” prende le mosse da una omonima statua d’oro di Giacomo Manzù, ma a me quella metaforica postura ha fatto pensare a L’épuisé (L’esausto, 1991), un magnifico saggio di Gilles Deleuze che, ragionando sulla differenza tra l’essere stanco e l’essere esausto, illuminava la condizione dell’uomo moderno, a partire dalle opere di Beckett che mostravano l’esaurimento, lo “sfinimento fisiologico” di figure condotte sul confine di una completa estenuazione esistenziale. Ma Perilli vede, invece, nella bella scultura di Manzù l’input per evocare l’originario sorgere e insorgere dell’Uomo, pur con qualche linea di dubbio: “Adamo disteso, manichino svegliato – per miracolo / eterno proclamato Primo Uomo, divino e mortale. / Sto nascendo e già mi stanco a vivere, anche / a esserne felice… Che strana idea, che pazzo / lievitare!… Disteso accanto a tutto ciò che / mi manca, o meglio ancora non sono… Un dolore / mi prende dentro – …”. Perché forse l’essere distesi nell’atto di nascere ha in sé già il segno dell’essere esausti nella curva del tramontare.

Nel compulsare la sovrabbondanza testuale del volume si possono, via via, seguire i percorsi delle varie sezioni. Ad esempio, l’ottava denominata “Il terremoto non è cattivo” annovera poesie che sono una sorta di dolente memorandum dei più recenti eventi sismici che hanno flagellato il centro-Italia: da quello in Abruzzo del 6 aprile 2009 a quelli nell’alto Lazio del 24 agosto 2016 e in Umbria e nelle Marche del 30 ottobre dello stesso anno, per arrivare al crollo del Ponte Morandi a Genova il 14 agosto 2018, e senza dimenticare il maremoto che devastò Haiti e la sua capitale Port-au-Prince all’inizio del 2010, rammentando Evan Muncie, un sopravvissuto letteralmente miracolato per avere resistito per un mese sotto le macerie: “‘Hai tu passeggiato in fondo all’abisso? Le porte della morte / ti son esse state scoperte? Hai tu veduto le porte dell’ombra / di morte… E la tenebra dov’è la sua dimora?’ Giobbe d’un Evan! / Ogni maremoto o sisma che ci impazzisce il cuore eppure chiede / alla mente di ragionare sul futuro, di meritarlo, inginocchiarsi / immortali di morte, vermi della terra, sozzi pòrci nell’antro ancora / feriti, fioriti d’ali, poi mammiferi eretti, miracolati dalle macerie, / fratelli d’uomini, anime in pena, mai più creature indegne di sé”. Ecco, ogni volta, in ogni ricognizione nei cuori strappati di catastrofici eventi, Perilli come Diogene di Sinope va cercando l’uomo con la sua lanterna poetica, ovvero cerca la sua residua ‘dignitas’ anche nelle evenienze più sventurate e stravolgenti. Nel baratro più totale è la dignità l’ultima cosa a cui l’uomo non può abdicare.

Facendo un passo indietro, la settima sezione viene dedicata ad “Amici artisti & poeti”, partendo da Amelia Rosselli (“Ma capivi il dolore, ogni nome di cuore! Tu che amavi / e volavi agli altri, come Libellula vibra veloce / e immota, pazza di luce, effimera da durare per sempre…”) a Dario Bellezza, da Elio Pagliarani a Kikuo Takano, da Valentino Zeichen alla compagna Nina Maroccolo, al pittore e scultore americano Mark Kostabi. E al poeta e matematico giapponese Takano si addicono terminali, icastici versi: “Un Sol Levante che non tramonta… / … Dio è Tutto e ovunque, / lucciola, ibis, mare/cielo, Fuji Yama… E l’uomo / è il Nulla che proprio Lui ci riempie, il secchio / senza fondo che invece sempre attinge, trabocca vita”. L’uomo quindi è un nullapieno, un ‘nihil’ che tracima, che esonda, il cui flusso vitale riempie il mondo di sé, a torto o a ragione. La facondia letteraria di Perilli è sostenuta da questo tenacissimo filo umanistico, da un credo di inossidabile neo-umanesimo che non si lascia scoraggiare dagli avvisi contrari di Martin Heidegger: gli dèi sono volati via dal mondo, oramai è la Tecnica che governa la terra e, vieppiù, il divenire della società, ché l’uomo ha perso la sua centralità, è uno spostato, un essere disanimato in un falso movimento di sviluppo senza progresso.

Plinio Perilli tutto questo lo sa, perché è un poeta-critico letteratissimo e colto, è un autore che come Mallarmé ha letto tutti i libri, ma la sua carne non è ancora stanca e triste, vibrano ancora in lui le sollecitazioni della giovinezza, le pulsioni di uno spirito che non si acquieta, che continua a manifestarsi in stato desiderante, nella forma di una poesia innamorata, inebriata di vita in tutta la sua interminabile fenomenologia: uomini, cose, piante, animali, paesaggi, opere d’arte. E se la sua scrittura talora un poco si abbassa e corre e scorre parallela a certe cronache giornalistiche, il suo piglio affabulatorio fa pensare al Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971): un trasumanar e concertar e edificar un Museo poetico non vetero-museale, bensì biodinamico, colmo di enérgheia. E valgono un programma i versi: “Ora mi torna tutta, quella frase lucente / d’Albert Camus che leggevo da giovane, / e l’amavo già senza capirla: che l’uomo / ha un solo dovere sulla terra, quello / di essere felice… Echeggiava a lenirmi”.

Ecco, Museo dell’Uomo è il libro di un uomo che non ha mai rinunciato alla ricerca della felicità. Che l’ha cercata anche nella felicità espressiva di un verso, di una rima, di una strofa, pure guardando ai disastri naturali o della historia, come oscillando tra epicedio ed epinicio. Affermava Carl Gustav Jung: “Solo il medico ferito guarisce”. Ergo solo una poesia che si fa carico delle innumeri ferite dell’uomo può porsi come lenimento, conforto, sollievo in vista di una guarigione magari non probabile, ma non impossibile. E forse la piccola-grande felicità che si può raggiungere è soltanto in una diminuzione della sofferenza, in un (Palazzeschi dixit) ‘controdolore’.                           

Due letture: Sergio Zuccaro e Valentina Proietti Muzi

di Marco Palladini

1 – Uno legge il titolo e rimane perplesso: 123.45. Che cos’è, un algoritmo? Una specie. Si legge, infatti, in quarta di copertina: “(centoventitré punto quarantacinque megahertz) è la frequenza radio usata dai piloti di tutto il mondo per le comunicazioni private”. Perché l’autore (e auto-editore) di questo volumetto (pp. 178, € 10,00) è Sergio Zuccaro, un poeta ciociaro, di Supino (ma abita ad Ostia), che ha lavorato per trent’anni come tecnico di volo prima con l’Ati e poi con l’Alitalia, prima del declino e della interminabile crisi della nostra compagnia di bandiera. Il paradosso è che Zuccaro non si perita di confessare che lui soffre di agorafobia fin da adolescente, al punto che non ce la fa a guidare in autostrada e si blocca se deve attraversare una piazza. E uno così, preda al suolo di capogiri da vertigine, è riuscito a volare per decenni? Sì, perché, spiega, “In aereo non mi succede. In aereo la forza di gravità sono io. Staccando le ruote da terra ho l’impressione di sottrarmi ai principi della fisica”. Per concludere con ironia: “L’ammiraglio Nelson soffriva il mal di mare”.

Ora non è che Zuccaro possa per questo sentirsi l’Horatio Nelson dell’aria, ma a suo modo ha domato il proprio disturbo psicosomatico, salendo sugli aeromobili in tutto il globo, come se l’aereo “staccando l’ombra da terra” (titolo del più bel libro di Daniele Del Giudice, 1994), diventasse un mondo a sé, un mondo sospeso nel vuoto, capace di solcare lo spazio ed il tempo in un costante mix di pericolo e di estasi aviatoria. Chi vola professionalmente assume, naturalmente, il rischio come un dato ineliminabile del mestiere, ed è abituato e soprattutto addestrato a far fronte agli imprevisti, alle emergenze anche gravi, deve essere in grado eventualmente di mantenere il controllo e il sangue freddo per rassicurare i passeggeri e non farli andare nel panico più totale. Ma naturalmente sa che la possibilità di precipitare e morire fa parte del suo lavoro e non lo dimentica mai. Come Zuccaro che non dimentica tre colleghi, tecnici di bordo come lui, deceduti dopo uno schianto, magari dopo averli accompagnati con la propria macchina in aeroporto. L’ultimo passaggio e non saperlo, non volerlo ovviamente neppure immaginare.

Il libro si compone di tante tessere di memoria brevi o brevissime, secondo un florilegio di ricordi che fungono come un frammentario breviario o ‘briefing’ di vita vissuta, viaggiando otto-dieci chilometri sopra la crosta terrestre. Ricordi che spaziano per l’intera penisola, ma poi soprattutto richiamano i tantissimi scali internazionali toccati, andando dal Giappone all’Australia, dall’America Latina a Dubai, dagli Stati Uniti alla Russia (ancora Unione Sovietica), dall’Africa all’Asia, agli approdi europei. Un girovagare inesausto nei percorsi aviatorii e delle ricordanze, condotto con una scrittura concisa, leggera, ironica, ma anche puntigliosa e terminologicamente sempre precisa, con flash inattesi come i “fuochi d’artificio” visti il 23 novembre 1980 sorvolando Napoli, che invece erano i cortocircuiti elettrici dovuti alle devastanti scosse del terremoto in Irpinia che fece quasi 3mila morti e non mancando di sottolineare: “Tra i 280.000 sfollati c’era anche la mia famiglia”. Oppure rammentando i vari passeggeri illustri trasportati: da Carmelo Bene, altero, che non si degna di dare confidenza a chicchessia a Marcello Mastroianni che si lagna di essere maltrattato dagli agenti del fisco, da Pasolini che tiene in aeroporto Ninetto Davoli sulle ginocchia a Giulio Andreotti che vola con la moglie ed un figlio che sembra un body-guard, per andare a Catania alle nozze di un imprenditore siculo in odore di mafia, tanto per non smentire i suoi inveterati rapporti con la ‘onorata società’. Oppure a Susanna Agnelli che si sposta apparentemente senza mai un solo bagaglio come si addice a una gran dama della jet society, di casa ovunque nel mondo.

Elegantemente curato per la grafica da Antonio Poce, è un libretto amabile e godibile e da leggere tutto di un fiato questo di Zuccaro, mi verrebbe da dire ‘a volo radente’, magari rimuginando sui moltissimi, lussuosi hotel a 4 e 5 stelle dove il nostro ha pernottato negli scali di tutto il pianeta perché, al tempo, l’Alitalia non badava a spese e i piloti e tecnici in lustra divisa erano un bel biglietto da visita per affermare il prestigio della compagnia. Così, 123.45 diventa anche un piccolo regesto di un’altra epoca lungo le rotte di un trasvolare che era pure un sognare, un dimenticare gli affanni terrestri per immaginare di vivere sempre, come avrebbe detto Ennio Flaiano, con “i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”.     

P.S. > chi volesse procurarsi il volume può rivolgersi alla pagina Facebook dell’autore. 

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2 – Un esordio poetico di rilievo mi sembra quello di Valentina Proietti Muzi con la plaquette Il mondo che fa per me (Amos Edizioni, pp. 60, € 12,00). Di rilievo ed insolito perché la 39enne autrice romana non appartiene al consueto côté degli aspiranti poeti, ma svolge un’attività professionale di consulente finanziaria. Lavoro che peraltro non traspare o non traligna dai suoi versi nitidi e calibrati che si declinano lungo una linea di esistenzialismo lirico, ora algido e assertivo, ora spaesato ed interrogativo. Diciamo che ogni tematica sociale, civile o politica è espunta dai testi del librino, secondo la via maestra della tradizione poetica italiana che abitualmente si definisce petrarchesca. Scrive Proietti Muzi: “Il mondo che fa per me / si nasconde nel sonno e mi parla / con la voce dei morti / che risalgono la corrente. / (…) Il mondo che fa per me / mi tiene la mano / senza premura / com’è tutto uguale senza guscio…”.  

Si potrebbe celiare che il mondo che fa per lei assomiglia, per dirla con Peter Handke, a un mondo visto dall’interno dell’esterno dell’interno. È un mondo visto o intravisto anche per minimi slittamenti di senso, e che appare desolato, obliquo, né rassicurante e né consolatorio. Proietti Muzi ostende una voce anche dura che cerca, appunto, di dare voce alle compressioni dell’anima, ai fantasmi interiori e anteriori, a un quid che non si sa neppure descrivere, al massimo si può cercare di indovinare, pure con spavento: “Il buio / ha sempre qualcosa da raccontare / esegue la caduta / in perfetta armonia / lo vedi affiorare // e tu improvvisamente non hai più / via di fuga”.

Se Emily Dickinson fugge dalla trappola del mondo esterno per rifugiarsi nella trappola della propria stanza virginea e bianca come un sudario, Proietti Muzi non vuole tanto seppellirsi viva, quanto misurarsi con una dimensione del vivere che reca però impresso un sigillo tanathofilo: “La mia carne si interrompe / esce fuori / non si abitua a questo mondo nuovo – / e io ho freddo. // L’interno della morte / deve essere fatto così / una cicatrice aperta, / che inghiotte”.

Il sentimento dell’essere intrappolati senza vederne la ragione appare una condizione ontologica che si può sopportare o scalfire soltanto con smarrimento: “Quello che non vedi / è che sei appesa / a una striscia di luce // ma la linea del cranio è troppo tesa / così continui a scorrere / fino alla prossima stagione // verranno ancora a cercarti?”. La poesia di Proietti Muzi è ancipite, comunica i propri costanti microtraumi con sincerità, ma insieme oppone una resistenza ostinata, piccoli diaframmi concettuali tra stupori e riflessioni: “L’osservatore di sogni / deve essere lento – … / spesso penso che esiste / un limite da superare, / ma poi mi vedo nella buca / e non mi sono mai mossa”.

Se il poetare è anche un modo (e un mondo) per consumare, ossia per autodivorarsi e per offrire agli altri di nutrirsi della propria sostanza sottile, l’autrice attribuisce comunque al simbolico rito una valenza soterica: “Hanno spostato l’ora della cena… // poi arrivano alle ossa, / e mentre aspetti di mangiare / al centro trovano solo / ossa / eppure sei salva”. Se questa plaquette è un evidente viaggio in versi nella sofferenza del vivere e nel rendersi profondamente conto di ciò, non vi è in ogni caso un compiaciuto abbandonarsi al malestare: “Così nascono e cedono al cammino / e mentre aspetto / che mi vengano incontro / dalle zone interne… / fino a quando si esonera / ogni passaggio / la facoltà di provare dolore / è un bel posto non c’è che dire / e non fa più male”. Allora, nella provvisoria conclusione del viaggio si può dichiarare che “il paesaggio è cambiato / ora ti cresce sotto la pelle”. Ogni esperienza motivata di scrittura trasforma, anche di poco, il paesaggio interiore e ti rende maggiormente avvertito delle zone più enigmatiche, più oscure della tua animula, quelle dove plausibilmente si annida la verità del tuo ego.

La poesia di Proietti Muzi ha un dettato lineare e semplice, ma non è mai ingenua o banale. In qualche modo risuona in essa la clarté e il timbro asciutto di certi maestri della lirica novecentesca come Saba, Sereni e Caproni. Una lingua di ricognizione per tracciare le incerte mappe del proprio esserci.

In omaggio a Carlo Bordini – 2

Autoriflessioni & testi

Quattro anni fa Carlo mi inviò il pdf della tesi di Laurea Magistrale di Gianluca Capasso (2015-2016) sulla sua opera poetica. In appendice alla tesi c’era una lunga, interessante intervista da cui traggo alcune dichiarazioni che mi sembrano illuminare bene il suo percorso letterario. (m.p)

di Carlo Bordini

“ (…) Quando ho cominciato a scrivere le prime poesie, che derivavano da un mio malessere e da un mio bisogno di esprimere, le feci leggere ad un amico e quest’amico mi disse: «Ma questo sono io! Questo l’hai scritto per me!». Quindi ho capito che quando una persona scrive non parla soltanto di se stesso ma anche dei problemi degli altri e questo mi ha incoraggiato a scrivere. Poi ho cominciato a pubblicare molto tardi, tardissimo

Strana categoria è un ciclostilato del quale io ho un’unica copia. Devo dire che tutto sommato è un libro di esordio con cui non sono più in sintonia, nel senso che ero uscito da un periodo molto lungo e completamente assorbente di militanza politica e quindi avevo ancora questa idea della poesia militante… Molte di quelle poesie non le riconosco più (…) Diciamo che si situa a cavallo tra la vita precedente e la mia rinascita. La “strana categoria” sono queste strane persone che non si identificano nella vecchia classificazione di proletariato, di classe rivoluzionaria ecc. Sono qualcosa di nuovo, sono a metà e si sentono in crisi… Poco prima c’era stato un periodo in cui veramente si credeva di poter abbattere il capitalismo: un periodo di grande esaltazione e anche di eventi importantissimi che secondo me è durato dal ’59 al ’73, cioè dalla rivoluzione cubana al golpe cileno. C’erano state cose immensamente eroiche come, ad esempio, la guerra del Vietnam, dove gli americani sono stati letteralmente sconfitti e costretti a fuggire con gli elicotteri; c’era stata la rivoluzione culturale cinese e mi ricordo che eravamo tutti entusiasti. E poi è venuta fuori tutta la stoltezza…

(…) In Poesie leggere non ci sono poesie politiche, non ci sono poesie militanti. Ho cercato di depurarmi non solo dal punto di vista contenutistico, ma anche dal punto di vista stilistico, nel senso che in quel periodo io tagliavo molto le mie poesie, cercavo di dire il meno possibile e di essere più allusivo che descrittivo: sentivo questo bisogno. Alcune poesie sono tagliate a metà: Poesia scritta di notte è una poesia sul suicidio, ma poi la parte sul suicidio è stata eliminata. Diciamo che è stato un periodo di “depurazione”.

Strategia… considerando il verso ormai liberissimo, diciamo che la metrica segue un po’ il flusso del pensiero o il flusso del corpo. Una volta dissi a dei ragazzi che scrivere una poesia è come guidare una motocicletta: la motocicletta la guidi con il corpo, e anche la poesia in un certo senso. Strategia l’ho scritto in tre notti: ero follemente innamorato e i versi finali sono l’espressione di una volontà folle… Non potevo che scriverli così, attraverso questo sillabare. Non era un vezzo estetico. Io credevo veramente di essere Dio. In Strategia c’era l’euforia della disperazione; poi con Pericolo ho iniziato a essere padrone di me stesso (…) È stato scritto dopo una forte delusione amorosa. È un poema sulla depressione totale, anche graficamente: questi versi lunghissimi a me ricordavano quei tuoni molto secchi che si sentono soprattutto in montagna… Sono molto legato a questo poema, a me piace molto, anche per il suo passare da una cosa all’altra.

(…) “Aelia Laelia” nasce come piccola cooperativa editoriale fatta da alcuni giovani (io ero il più anziano) con l’idea di fare dei libri anomali, dei libri fuori dagli schemi. Abbiamo pubblicato, tra l’altro, il libro di poesia Non sempre ricordano di Patrizia Vicinelli, perché eravamo affascinati da questo tipo di scrittura. Poi abbiamo pubblicato un libro di Amelia Rosselli (Appunti sparsi e persi) e la cosa andò così: io ero amico di Amelia, lei aveva scartato alcune poesie da Documento e le proponemmo di darcele a noi. Erano poesie più leggere, un po’ più comunicative, che lei aveva giustamente scartato proprio perché non rientravano nella temperie di Documento. Noi decidemmo di fare questo libro “minore” che però ebbe fortuna: ci furono molte recensioni e molta gente leggendo questo libro si ricordò di tutti gli altri suoi libri… L’idea era di fare dei libri “impubblicabili”.

(…) io sono un romantico, non voglio essere melodrammatico; e allora cerco di evitare tutto quello che può suscitare una facile commozione: di qui tutto questo deformare… Anche perché noi italiani abbiamo nel nostro DNA il melodramma, che io personalmente amo moltissimo, pur riconoscendone i limiti. C’è anche una lotta con me stesso… Quello che scrivo non so che effetto fa al lettore.

Poema a Trotsky (…) Nell’anno 1000 si diceva che ci sarebbe stata la fine del mondo: millenarismo è questa idea della catastrofe totale e anche della rigenerazione totale. Io ho vissuto questo periodo di millenarismo. Tra l’altro Poema a Trotsky ci ho messo più o meno trent’anni per scriverlo: la prima parte è una canzoncina che avevo fatto per me stesso quando sono diventato trotskista e che non aveva niente a che vedere con la politica e il trotskismo. Poi ho cominciato a scrivere questa poesia, che all’inizio era molto diversa. A me piacciono molto gli scacchi e quindi il fatto che, durante la guerra civile, il capo dell’esercito rosso decide di sfidare il campione del mondo di scacchi mi affascinava molto. All’inizio l’idea che volevo sviluppare era che in fondo la rivoluzione vinceva comunque, anche se Aleckin vinceva a scacchi. Era quindi un’idea trionfalistica. Poi piano piano, nel corso di un lungo periodo di anni, all’ultimo momento, sono arrivato alla conclusione opposta, cioè all’idea che entrambi volevano perdere. Quindi ho esaminato criticamente la mia partecipazione politica e la cosa interessante è che molti militanti si sono riconosciuti in questo poema.

(…) Il mio professore dell’università, che si chiamava Vittorio Emanuele Giuntella e che era un cattolico abbastanza “eterodosso”, una volta citò un verso del poeta indiano Tagore: «Chi passa la sua vita facendo del bene non ha tempo per essere buono».

(…) Per quanto riguarda Amico, nel momento della sua morte questa persona mi ha regalato la speranza della vita. Però l’idea che vivere sia una colpa c’è anche in Epidemia, che è un po’, purtroppo, il mio credo politico ormai. Cioè: noi viviamo in un mondo dove distruggiamo, massacriamo… Ci autodistruggeremo: e in fondo ce lo meritiamo. Mi sembra che le cose stiano andando così, non c’è la speranza di cambiare qualcosa…

 (…) A me piace vivere fuori della realtà… Mi è successo un paio di volte di fare un’anestesia totale: è una sensazione stranissima perché non ti accorgi che stai perdendo coscienza, non lo sai. Quando mi sono svegliato non mi sono accorto di essermi addormentato: se durante l’operazione mi avessero ammazzato non ne sarei stato cosciente. È stato come essere fuori dalla vita. La morte è semplicemente una luce che si spegne, non te ne accorgi nemmeno.

(…) In Sasso ci sono poesie molto vecchie, poesie che non sono coeve. Ho trovato nella terribile radicalità, nella disperazione di queste poesie qualcosa che si adattava bene a questo libro. Ci sono anche delle poesie di amore disperato che non avevo messo in Polvere. Qualcuno mi ha detto che di tutti i miei libri forse Sasso è quello più organico. E forse è anche il mio libro più radicale, più tremendo.

Fare di questo (…) la cosa interessante è che questa poesia è la trasposizione in versi di un testo in prosa, un testo di autocoscienza estremamente lucido. A un certo punto ho deciso di fare di questo testo una poesia: mi sono accorto che quello che in prosa funzionava, in poesia andava ridotto al massimo. Prendere questo testo e metterlo in versi non funzionava: ho dovuto fare molti tagli e ho capito che la poesia va per accenni, per lampi. Questo per me è stato un insegnamento interessante. Ti dirò un’altra cosa: molte poesie non sono state scritte, ma sono state “dette” col registratore: la parola, anche se più lenta del pensiero, è molto più veloce rispetto alla mediazione della scrittura. Quindi, per non perdere il flusso del pensiero spesso molte poesie le registravo; poi le mettevo sulla carta e le rivedevo. 

(…) Quando pubblicammo Appunti sparsi e persi (della Rosselli) lo presentammo in giro e lei stava molto male, soffriva molto per la sua malattia mentale. In una presentazione del suo libro parlò de «l’enorme secondarietà della letteratura», intendendo dire che scrivere non ti salva la vita (…) Diciamo che la virtù è premio a se stessa. Andare a fondo nelle cose, scrivere una cosa “bella” perché vera, perché giusta è un impulso grande ed è importante: ma non ti salva la vita. Questo è il senso. Amelia diceva: «Tutti mi dicono: bravo poeta» (lei era molto modesta, non diceva mai: «Sono un grande poeta»), ma lei soffriva lo stesso. Una volta io le dissi che la sua poesia mi ricordava la musica di Bach, cioè quella di organo, e lei mi disse: «Sì, a un certo punto della mia vita ho dovuto scegliere se fare l’organista o la poetessa». Lei conosceva tutti gli organi di Roma. Aveva questa musicalità, queste parole che significano così tante cose insieme… Lei è veramente la più grande.

(…) A me piace molto Apollinaire perché si situa agli albori delle avanguardie storiche. Ha il fascino dell’alba. Le avanguardie storiche (tutte quante, più o meno) si sono poi cristallizzate e irrigidite, hanno perso vitalità e sono diventate un po’ come delle piccole sette. Apollinaire, invece, è all’inizio, in una fase di passaggio. Io lo paragono alla bellezza dell’architettura romanica che è il primo germogliare di una spiritualità che dopo, con il gotico, diventa un po’ troppo “grossa”, diventa anche supponente… In Apollinaire amo il fatto che lui è stato capace di mischiare vari stili. Egli elimina la punteggiatura, mantiene la rima: quindi crea questo connubio che non è ideologico, non risponde ad uno schema prefissato. È un poeta narrativo ed è un poeta sperimentale. È un grande teorico e nello stesso tempo è estremamente “sballato”. Per esempio, la poesia Zona non è soltanto, a mio parere, una delle più belle poesie del Novecento, ma è anche una poesia che spiega perfettamente il salto di civiltà, l’impossibilità di essere cristiani, l’impossibilità di essere classici. Inoltre, sa essere onirico e sa scrivere delle poesie d’amore splendide e toccanti. Mi affascina questo suo essere fuori dagli schemi, il suo verso lungo, il suo alessandrino… Poi mi piace questa sua capacità di mischiare la sua autobiografia con la Storia: in Zona ci sono i suoi amori e nello stesso tempo la visione del mondo che cambia, tutto in un’armonia totale.

(…) A me piace Pasolini. Io su Pasolini ho un’idea diversa dagli altri: preferisco il Pasolini “tardo”, quello di Trasumanar e organizzar. Lui ha, quando vuole, un’intensità enorme che secondo me non è stata capita dalla critica. A me piacciono queste poesie “finali” più delle Ceneri di Gramsci, in cui io personalmente sento (ma non sono il solo) un vezzo decadentista. In Trasumanar e organizzar, invece, ci sono delle poesie sulle puttane che sono bellissime, dolcissime oltretutto. Pasolini andrebbe veramente rivisto con occhi nuovi; lo dicono anche Cortellessa e Berardinelli. Secondo me c’è questo “petrarchismo strisciante” nella poesia italiana per cui se non hai un minimo di forma non sei considerato. E forse proprio per questo io cerco di essere il più “selvaggio” possibile…

(…) Io sono stato a lungo considerato un “selvaggio”, un naif. Io non ho un’origine letteraria: all’università ho studiato Storia, non volevo entrare nel gergo critico… La mia “fortuna” piano piano è venuta soprattutto dai giovani. In questo momento devo dire che la mia presunta “antiletterarietà” viene accettata.

(…) io credo che nella letteratura italiana, soprattutto nella letteratura italiana del passato, dei nostri due grandi maestri, Dante e Petrarca, quello che è stato maggiormente recepito è stato Petrarca. Dante è un poeta isolato. Per esempio, altrove, in altre temperie, vi sono stati poeti che hanno sentito la lezione di Dante: grandissimi poeti come Eliot ed Ezra Pound, i quali hanno studiato l’italiano per leggere Dante. Da noi l’unico che ha qualcosa di dantesco è Pasolini, secondo me. Quindi per molto tempo c’è stato questo “petrarchismo strisciante” che adesso non c’è più, perché credo che in questi ultimi tempi c’è un po’ troppa sciatteria… Ci sono poeti italiani bravissimi; però, per la mia esperienza personale, i migliori poeti che conosco sono quasi sconosciuti. C’è una tipologia di poeta che non ha molta voglia di farsi pubblicità, io ne conosco diversi e secondo me sono i migliori.

(…) L’esperienza in America Latina è stata importante per me. Loro amano la poesia più di quanto la amiamo noi. Quando ero al Festival di Medellín chiedevo a tutti: «Perché i colombiani amano la poesia?» e tutti mi davano risposte che non avevano nulla di letterario. Mi dicevano: «Perché la poesia ci aiuta a vivere»; «Perché la poesia ci rende migliori»; «Perché la poesia ci ha aiutato a uscire dalla paura». Poi ho rivolto la stessa domanda a un poeta colombiano e lui mi ha risposto: «I colombiani amano la poesia perché la confondono con la speranza». Sotto molti aspetti lì la cultura è più fortunata che qui. Sono stato anche in Perù (io sono sposato con una poetessa peruviana) e posso dirti che lì appena arriva uno scrittore vivo lo prendono e lo portano all’università: gli fanno leggere i suoi scritti e lo fanno discutere con gli studenti; mentre qui in Italia, in genere, c’è il professore che parla prevalentemente di scrittori morti… Lima, ad esempio, è una città enorme con mille problemi, però ha moltissime biblioteche; c’è anche una piccola libreria, la Librería Inestable, che vende solo poesia e resiste da anni. Noi stiamo uccidendo la cultura mentre lì la cultura è finanziata in modo serio ed è “sentita” dalla gente. Forse il nostro consumismo ci ha “bloccato”. In questi Paesi c’è una spiritualità maggiore. Lì il poeta è una persona importante. ”

******

Carlo amava condividere alcuni suoi testi, sia poetici sia in prosa, con gli amici, a cui li inviava attraverso la posta elettronica per avere un riscontro, un commento, una reazione o anche nulla, soltanto il piacere di leggerli. Ne ho recuperati alcuni e qui li pubblico in affettuoso ricordo. (m.p.)

Non ho più idee

Da molto tempo non ho più idee.

Sono capace solo di guardare.

Una volta avevo idee.

Adesso le cose sono cambiate a tal punto che non posso più interpretarle con le idee di una volta.

Posso solo guardare.

E pensare: forse il problema è da un’altra parte.

Ma non so da quale parte.

Ma sono convinto che il problema è da un’altra parte.

Per quel che mi riguarda, i messicani potrebbero benissimo invadere gli Stati Uniti.

Non amo gli Stati Uniti. Sono l’oppressione e la guerra.

Ma so anche che la civiltà è fiorita sempre all’ombra della violenza.

Venezia non sarebbe così bella se i veneziani non fossero stati dei figli di puttana.

Inoltre una mia amica (uruguaiana) che una volta ha fatto l’errore di andare in Colombia attraverso Miami,

mi ha detto che lì all’aeroporto sono schifosi ma che i peggiori sono i latinos che sono diventati yanqui.

E allora penso che il problema è da un’altra parte.

Ma non so dove.

O meglio, so dov’è, è chiaro, ma ho paura di dirlo.

***

Io sono un vecchio orso solitario

che vuole vivere solo. Ma a che cosa servo? Forse

perché so descrivere la mia impotenza? Per questo

c’è chi mi segue? Forse perché possono ridere

di me? Io non so dare nulla. E nemmeno prendere. E

allora a che servo? Forse perché attraverso il

mio pentimento anche gli altri possono pentirsi?

So di avere imparato, da tempo,

a dominare le menti degli altri. Ma

non vi fidate per favore. / Infatti /

Sono un traditore.

Poesia letta in una piazza

Poiché mi avete invitato a leggere poesie

devo dirvi che mi vergogno un po’

perché chi scrive poesie non dà risposte.

Ma le risposte sono difficili, immense, presupporrebbero

compiti immensi, che vanno oltre le nostre possibilità.

Sì, è vero, noi stiamo invadendo l’Africa per

saccheggiarla, e gli africani che vengono qui sono

utilizzati come schiavi. E noi cosa

possiamo fare? La poesia serve a questo. A dirsi

e noi, che siamo in questa piazza, cosa possiamo fare?

***

mi diverte l’idea che tutta l’europa sta per cadere per colpa (merito) nostro,

così la grecia sarà vendicata

se siamo un laboratorio politico

prefiguriamo il crollo e va bene così

non meritiamo altro

noi che siamo i più schifosi animali della storia

A proposito di avere una figlia in cielo

                                                           per Myra,

                                                           brillante e fragile

                                                           come il cristallo

Ma sì, certo che avremo un figlio, e

questo figlio lo faremo in paradiso. Anzi,

sarà una figlia, e ha già un nome, Mila,   

e dato che tu hai quasi 50 anni meno di me

e sono un vecchio stanco orso e tu una

ragazza giovane e fragilissima solo lì

potremo farlo, su una nuvola,

una bella nuvola di tre stanze

con un giardinetto, e un cane, e non

avremo più né età né sesso, come tu

dici, e un figlio così tipi come noi

possono farlo solo in cielo, si sa, non

in questo mondo che tra l’altro

è moribondo, e un piccolo paradiso

lo possiamo vivere già in terra,

e lo stiamo vivendo.

***

Il cane *

Dalla mia finestra non vedo niente. Anche perché non ci guardo mai. O meglio, ogni tanto guardo fuori per vedere se piove. La ragione per cui non guardo fuori dalla mia finestra è che non c’è niente da vedere. Dalla finestra della camera da letto si vede una piazza, in cui si vedono le macchine che passano. Nella piazza c’era anche un mercato, di cui vedevo un pezzettino (in realtà vedevo solo il fioraio). Ora lo hanno tolto perché devono fare un parcheggio, e quindi vedo solo le macchine edili che lavorano. Dalla finestra del salotto e della cucina si vede un grande giardino, su cui si affacciano le palazzine, in una delle quali abito io. Il giardino è molto bello e molto ben tenuto; però serve solo per farvi passare quelli che rientrano in casa e quelli che escono. Solo di rado, la domenica o il sabato, delle famiglie portano lì dei bambini a giocare. Quindi, anche se il giardino è bello, non serve a niente guardare per vedere quelli che rientrano e escono. Quel giardino condominiale è ormai il guscio vuoto di una socialità che non c’è più. La mia padrona di casa, che è una mia amica, mi ha detto che quando abitava lì nelle riunioni di condominio si litigava continuamente. Mi ha detto: “Andando alle riunioni di condominio capivo come nascono le guerre”. Io abito lì da poco e non sono un condomino, ma ogni tanto vedo affissi dei manifesti che accusano l’uno o l’altro e sono un riflesso delle riunioni di condominio.

***

Intorno a casa mia non ci sono cose molto interessanti, e ci sono anche pochi negozi. La sera non ci sono luci; quando esco la sera per fare una piccola passeggiata, provo un senso di tristezza. Quando esco per fare queste piccole passeggiate dico a me stesso: “Adesso porto fuori il cane”. E naturalmente il cane sono io.

C’è un mio amico che abita in un altro quartiere e guarda spesso fuori dalla finestra. Ma lui ha davanti un grande viale con grandi caseggiati da cui si vedono le finestre e si capiscono delle cose che succedono là dentro. E poi lui si interessa a quello che fanno gli altri. Io no.

La mia finestra è in realtà la televisione. Anche il computer, ma il computer serve soprattutto per lavorare. Per svagarmi guardo la televisione. E anche per sapere cosa succede nel mondo. La televisione è insomma la mia finestra. Le finestre reali mi servono solo per fare entrare il sole e l’aria in casa. Passo ore davanti alla televisione. Non è una finestra ideale. Ci sono troppi film americani, e questo mi dà fastidio. Giorni fa sono andato a piazza Navona, ho visto degli americani e questo mi ha dato un senso di fastidio fisico.

Devo confessare di vivere in una sorta di realtà virtuale. Sono abbonato a tutti o quasi tutti i programmi a pagamento. Ho molti amici, ma non li vedo quasi mai. Tempo fa ho sentito sotto le mie finestre un andirivieni inquietante di ambulanze. Allora, sperando di capire cosa stava succedendo, ho acceso la televisione.

*  Alcuni anni fa Stefania Scateni curò, per l’editore Quiritta, il libro Le finestre sul cortile (2005), in cui vari scrittori descrivevano ciò che vedevano dalla loro finestra. L’editore Quiritta poi cessò le pubblicazioni, e il libro ha cessato di esistere. Questo è il mio intervento. Il titolo del racconto è di Stefania Scateni.

Anna Malfaiera (1926-1996)

Quasi un quarto di secolo fa moriva Anna Malfaiera, una delle voci poetiche femminili più importanti del secondo Novecento, ancorché largamente misconosciuta e dimenticata. Il 27 dicembre 1993 le inviai la seguente lettera:

“Cara Anna, desidero ringraziarti per avermi fatto spedire il tuo ultimo libro Il più considerevole. Ho molto apprezzato questa raccolta che mi pare esprima una piena maturità stilistica e una grande densità semantica che mira a rendersi trasparente a se stessa. Ho còlto nella prima parte la scia di continuità con E intanto dire, un prodursi implacabile e per autorispecchiamento della scrittura che si fa pensiero poetante ovvero poesia pensante. Ma mi è ancor di più piaciuta la seconda sezione dove il sismografo della tua scrittura sobbalza, s’impenna, freme; la macchina stilistica senza perdere di aderenza, s’incrina registrando le rabbie, i disgusti, i malumori, i dolori, le febbri di rigetto dell’ego poetovivente. La materia verbale s’intride della pestilenzialità dell’essere. E il tuo estremo frammento mi fa venire in mente Sartre: «Credono che la bellezza sia loro pietosa: coglioni!». A risentirci presto e intanto auguri per un felice nuovo anno di nuove creazioni poetiche”. (Marco Palladini)    

Da Il più considerevole (Anterem Edizioni, Premio Lorenzo Montano, 1993):

C’è aria di rinuncia c’è aria di chiusura

c’è aria di aldilà. Mi è negata la speranza

di esiti favorevoli i progetti da sempre

si ritraggono chiudendomi la porta in faccia.

L’avvenire di schiena in direzione opposta

conferma il negativo prodotto dai contrasti

ostacoli urti tensioni un tutto assommato

in cui impigliata non ho trovato scampo.

Sgobba non indugiare affrettati provvedi

sarà piuttosto duro tocca a te sei forte tu.

Ed io a mostrare zelo voglia di predisporre

pensavo per il meglio. Dedizioni sacrifici

comprensione rabbia l’avventura no per difetto

di capacità cognizioni competenze attitudini.

Carichi fardelli affanni prove di forza

mai a riprendere fiato. Energie sprecate.

In un angolo finalmente arresa mi avvolge

l’eco – Molla tutto. Ormai resti d’impaccio.

*

Infinite motivazioni di lagnanze

tanto meglio se intime se infami.

Irrompono personificate una ad una

si accrescono comparate differenziate

interferiscono con malanimo si rimuovono

furenti in sé. Edifica lo strazio del dopo

la ragione nel pieno del suo dominio.

*

Proprietà non sempre garantita il corpo

dissimula scorie inganni malafede. La sua resa

sdegna leggende chimere ornamenti emblemi

incaute tentazioni canali indifferenti

nel percorso di corsi d’acqua o di stagnanti

scoli. Non muteranno gli eventi dolorosi

né la durezza dei volti tesi diffidenti.

*

Differenze di natura in una assortita

collocazione. Percorrono in lungo e in largo

flussi d’intolleranza di disperazione.

Sembra vano appellarsi a pratiche associative

a ordini legittimati alle relazioni di scambio

subentrano autorità azioni repressive

imposizioni forte debole congiunzione.

*

Questo malessere può essere un abisso

profondissimo un demone in estensione

in coincidenza di presentimenti avversi

un contenitore di ombre vaganti inascoltate

specchio senza rimandi di cose e persone

somma d’intenti perduti contrapposti

alla pura casualità respiro inafferrabile

di un consistente azzardo invasore.

*

Meglio non smarrirsi nel come vuole andare

l’assortimento umano ha modelli dispendiosi

e sporcizia nelle tasche rivoltate. Il progetto

avventuroso salendo rischia di ricadere

all’indietro per il piede non bene assestato.

*

Siamo al grado zero di valenze perdute

un inventario di complicità casuali e no

di assurdità credibili. Campionario.

Furbi cretini porci scemi. E l’orco?

e gli sciacalli? e i coglioni? Ahi! 

Faccia a faccia insultandoci corpo

a corpo scontrandoci persiste accanita

la volontà irriducibile del sopraffarci.      

Da Come un cinghiale in una macchia d’inchiostro (Torino, Nino Aragno Editore, 2018)

di Beppe Sebaste

Le parole

c’è il mondo

dico: il mondo

davanti agli

occhi

sopra la

testa

poi

chiudo gli

occhi

dico: li chiudo

c’è il mondo

c’è

ancora

dico:

immaginiamo

che non c’è

dico: niente

non dico

più

niente

del mondo

dico: non parlarne

del mondo

dico:

dille cose del mondo

senza gli occhi

senza la

voce

dico: senza

la voce

è falso

dico:

è falso

(…)

Ho fatto molte letture

In questo periodo scrivere mi costa fatica

Vorrei avere molte vite fare

molte cose diverse

Scrivere in prosa scrivere in poesia

sono molto attento a quello che succede

fuori dell’Europa

ho letto che Arafat guidava una Land Rover mentre le bombe 

bombardavano le navi

nel porto di Tripoli

amo una donna che si chiama (…) come in un sussurro

la sua voce potrebbe sussurrarlo meglio

sono i versi che non sopporto le parole poetiche

eppure adesso vado a letto a fare una cosa

molto poetica

più tardi compirò un endecasillabo spontaneo «lèggere

fin che non mi viene sonno»

ho fatto molte letture di poesie

chi scrive una poesia e poi la legge

crede di avere chiuso un cerchio

è una sensazione idiota e sai che i cerchi

non esistono

e ogni cosa è rotta

mi piacciono le parole semplici e le parole rotte

le frasi vuote che falliscono e cadono

Leggendo il Mahabharata penso a Emilio Villa

Qualche volta confesso mi manca

la compagnia di un amico

con cui parlare all’ombra

di questo popolo di alberi di cocco

e scimmie e chiassosi invisibili uccelli,

di risaie, banani e palmeti a cento metri dal mare

e a cento chilometri dall’equatore

(ma potrebbe essere anche la periferia

malata di una grande città, con o senza

camion a nafta)

mi manca dicevo a volte un amico

con cui parlare del Mahabharata

e della scoperta che certi versi del poeta Emilio

Villa – il grande traduttore di Omero

per il quale «prima o poi,

poi o prima, tutte le parole

spariranno», «anche quelle scritte sui rami» –

ricordano in modo intimo e profondo

il preambolo dell’antico testo indiano

quando il poeta, nonno Vyâsa   – già incarnazione e

manifestazione di Krishna – parla a Brâhma

del Suo poema che tutto contiene,

passato e futuro, realtà e fantasia (anche

il Divino vi dimora)

finché questo Yuga con tutto l’universo  

questo – sparirà,

e un nuovo Yuga rinnoverà la vita

dopo la vecchia stagione: «così

si perpetua il volgere del mondo»

Quindi Vyâsa il cantore detta al Dio Ganesha –

a Cui nessun ostacolo resiste, e qui nel ruolo di umile

scrivano – il poema che custodiva nella mente

e che pure sparirà (il poema che contiene

il mondo, cioè il poema che lo crea).

                                                  OM OM OM OM OM OM OM …

ripetono infatti entrambi a occhi chiusi

prima dell’opera di dettatura

per fare il vuoto e invocare il Grande

Silenzio da cui tutto emana

e a me vengono le lacrime

non appena ne comincio

la lettura, ma

                      «a chi dirlo?»

senza un amico

con cui restare

in silenzio

Come

                                                      (a Stefania Scateni con cui

                                                   ho scritto alcuni di questi versi)

come una carabina in un tempio zen

come un pesce senza bicicletta

come un dromedario fuori dall’acqua

come le rose nell’insalata

come un uomo con una donna

come un frigorifero in un garage

come un cubo in un lago di sabbia

come un cinghiale alla macchia in un chiostro

come un governo di sinistra

come un uomo senza una donna    

come zucchero nell’acqua bollente

come nascondersi dietro un fiore

come un lago ghiacciato di stelle

come un barbiere che non impazzisce

come un respiro

come la calma intorno ai limoni

come i gesti del falegname nel variare dei governi

come cercare Dio avendolo sempre già trovato

come orchidea che si spalanca all’ape

come imparare di nuovo a nuotare

come scavarti come terra

come un viale profumato di tigli

come un uomo con una donna

come un telefono che strilla a vuoto

come nuotare nella marmellata

come un libro letto a metà

come una briciola sulla tovaglia

come un uomo senza una donna

come l’attesa della parola giusta

come una lettera senza francobollo

come un cieco in cabina elettorale

come un sogno che non sa rientrare a casa

come un pensiero senza corpo

come un corpo senza ombra

come una poesia senza inizio che finisce

come una foglia gialla in primavera

come un sogno senza sognatori

come il profumo dei nostri corpi dopo

come una casa fatta di alba

come se si potesse dire

come se ci fosse qualcuno che ascolta

come il mare che non sta fermo mai

come il mare che non si muove mai   

come un uomo senza una donna   

come un uomo con una donna   

Poesia per gli anni zero (Storia con fantasmi)

Un giorno luminoso d’autunno

in cui c’erano a Roma numerosi cortei –

e perfino alle tue orecchie arrivavano i suoni e le voci

mentre sul tavolo in cucina riordinavi

le pagine del tuo romanzo e

sul fuoco bolliva l’acqua col riso che

avresti mischiato ai fagioli (black beans)

e in cielo rombavano elicotteri

(sicuramente in cerca di rivoluzionari sovversivi) –

tu guardi le foglie giallo oro dei platani,

gli indumenti colorati stesi ad asciugare sul tetto che

volteggiano felici nell’aria, le

misteriose scie bianche nel cielo azzurro (sicuramente

reazionarie) e pensi alla bellezza

delle manifestazioni degli studenti

che si proteggono con scudi di cartone

a forma di copertine di libri da salvare

coi titoli scritti a mano

e portano altri cartelli a difesa della scuola

fagocitata dalla “crisi finanziaria”

con su scritto ad esempio «la poesia

è contro il capitalismo».

In quell’istante desideri e quindi prometti

che qualsiasi cosa scriverai e qualunque forma

prenda quello che stai scrivendo

vi sarebbe stato traccia di questo, queste

concomitanze – il riso

che bolle i fagioli neri già pronti

il cielo azzurro i panni stesi colorati

i volti i libri-scudo degli studenti

tra i quali ricordi

1984 di George Orwell

Sulla strada di Jack Kerouac

Il mondo salvato dai ragazzini di

Elsa Morante    

Notte d’estate Roma impromptu

«Niente è più intatto di una rovina», dici attraversando

tra pini marittimi disposti come funghi il parco

archeologico del tardo capitalismo impiegatizio.

Hai fame e caldo è Ferragosto puoi pulirti con lo stuzzicadenti

e sdraiato guardare all’Idroscalo la festa

dell’Assunta che dal Tevere prende il mare

uomini & donne tatuati devoti

guardie di finanza parroci carabinieri & Santi

barcollano al largo nelle barche ubriache e i fuochi

non solo d’artificio esplodono fuori tempo come rutti.

La sera i neon e i karaoke, i fili elettrici attaccati ai pali

della luce. Ci divertiamo tutti molto. È come un film di Pasolini

girato da David Lynch.

Poi torni a casa e guardi le puttane in viale Marconi.

La notte ci si dà da fare, la notte. Eiaculare stanca.     

RITRATTO DI UN ISTRIONE

 

di Nevio Gambula

I
non ho anima,
ho solo questa lingua ingorda
e questo corpo goffo

la mia entrata in scena
è una gaffe

II
ho molto da dire
e pochi mezzi

la mia è una forma
di perversione, un modo deviato
di farmi a pezzi

III
non ho vocazione, non ho talento
non ho successo

mi spinge sulla scena
un’unica disperazione

IV
la scelta del palco
è per così dire un’allegra sfida,
non luogo di verità,
ma di poesia

è una derisoria epifania


lo stile grottesco, il buffonesco
legato a una classe sociale
inferiore

lo scettro di Follia in mano
un povero eversore,

però si tratta di me stesso,
dell’ultimo moicano

VI
sognavo di riuscire a salvare l’universo
a infondere vita nuova

si finisce così per infatuarsi
dell’assurdo

si finisce nudi, schiavi
di un desiderio bastardo

parodia di un ultimo
comunardo

VII
per lo spettacolo, per l’arte sacra
nessun rimpianto

porto a spasso il marchio
dell’infamia

in locali malfamati, in circoli privati
in teatrini di periferia

m’inebrio di improbabili
prodezze

non esiste nulla di più caro
delle mie stranezze

VIII
goffo, sciancato, mi arrampico
sul palco come scimmia
di baraccone

spicco il volo per civetteria

sono attore grottesco
per goliardia

IX
mi basta poco, un costume
una maschera e del vino

non ho virtù, non ho morale
re assassino o schiavo

me la godo del mio 
carnevale

X
in ogni caso, la mia sfida
è pur sempre autentica

slancio del corpo, corpo volgare
la mia sfida in piena luce
è dialettica

il corpo, dunque, è la mia gloria
senza splendore

qualcosa di meno che un artista
ma con grande ardore 
carnale

XI
non il bello, non il vero
ogni travestimento
è derisorio

non il sublime, non l’incanto
sfuggo con sdegno
il consolatorio

non il sociale, non il civile
alla luce splende
il mio repertorio

degradato

XII
critici e belle signorine
si tengono lontani dal mio palco
ripugnante, mi guardano
con disgusto

io mi vanto del distacco,
chiudo la porta e li guardo
bruciare, il loro dolore
è il mio trambusto

io esisto

XIII
la dimensione che questa scena esalta 
è la vertigine della morte

la morte è il contenuto, è la verità
di questo gioco gratuito

mi espongo allo scherno, alla derisione
per morire più tardi

per morire a me stesso

XIV
il corpo è verbale, è linguaggio
l’imperfezione è fragilità

lo slancio in volo è afasia,
apoteosi senza lirica

è poesia epica, è stravaganza
è l’eccesso che danza

oltre i confini della delusoria
realtà

XV
il veemente rifiuto della contingenza 
imperfetta, l’illusorio slancio
della propria vana
insipienza

non è un trionfo, è piuttosto
un tonfo nell’assenza

XVI
escluso e separato dallo spettacolo, 
resto prigioniero 

cattivo Amleto, e ancor più ridicolo
come Calibano, non abbandono
il palcoscenico, il luogo

della figurazione metaforica
d’una rivolta che non avrà
mai fine

XVII
la mia motilità sgangherata
cerca la perfezione

nell’insuccesso cerco l’atto
della correzione

il corpo sboccia, ugualmente,
nell’abiezione

XVIII
un’autentica, e stupida,
solitudine narcisistica

il mio desiderio è un desiderio
che è sufficiente a se stesso,

è il desiderio idiota
d’un idiota che con clamore e furia

non vuole significare
niente

XIX
separato dalla vita reale,
barbaro

modesto attore di periferia,
straniero

dietro e oltre le maschere sociali,
estraneo

privo di tesi e di filosofia,
crudele

senza personaggi e senza testo,
beffardo

mascherato da se stesso,
selvaggio

non sono nient’altro che un buffone,
sono l’eterno cambio di direzione,
il gesto mancato, 

sono:

XX
istrione, non attore

Da Declinazioni del timbro

di Anna Laura Longo

 

Dislocate dal sole
le ombre accettano forme
malleabili e ricettive.
Conta il peso di un architrave:
le chiama altrove,
nella latitanza onirica
che si avvicina ai grandi interrogativi.

*

Strato roccioso nell’entroterra
di un pasto acceso da autodifese.
Su tabulati si anima il mondo.
Come un proclama si erge
per trasmutare in tempi obliqui
di assestamento.

*

Nelle cartilagini è condensata
una padronanza limpida e creaturale.
Anche se fuggitiva vive elastica
tra lampi e vertici di scomposizione.

*

Il coraggio è stato trovato steso
e aderente a un’isola,
come un blocco acerbo,
ma diluito tra sottili colpi
e formidabili ondate.
Ha un sapore nitido
e abbastanza forte
da vivificare il sogno.
Si ricondensa intanto il volto
del maliardo passato
[senza linee prefigurate]
mentre stride il sasso
sull’indelebile e ribollente
mutazione sociale.

*

Gli stavo seduta di fronte lieve
e nel suo corpo agiva un tremito frastagliato.

Aveva un’integrità nuda tra i denti,
un sedimento nel titubante soffio
ancestrale.

*

Prove vaghe di germogliazione
per varcare una soglia ignota.

Giorni mutanti
poi uno in particolare
di calamitica forza o destrezza.
Vivida impronta autoimpressa.
Sui lineamenti di un campo
sfocia denso un equivoco
che si tramuta in suoni di sofisticazione.
Gesti iper-rotatori riescono a frammentare
labbra neutre. E una voce astratta
più che mai sa imbracciare
i brandelli calmi di fragilità.

*

Risalendo i fiumi dei pensieri radi e modificabili
si produsse un caustico avvicendamento
di segnali e odori,
nella cui trama organica
vissero trepidanti i tempi
e le maliarde fasi
di un aitante sradicamento.

*

Un bacino d’acqua sedicente e arreso
al suo fluido slancio perimetrale
è cosparso di ombre
in un’amorfa volubilità di sguardi.
Semioscuro il raptus autunnale.

Poco distante il vetro.

*

Voci ondose
immesse in tempi nutrizionali
dislocando i corpi
tra magie implosive
e gesti limpidi filamentosi.
Rifrazioni arcuate
pronte a tessere
un’ideologia della lingua.
Diluizione calda del mondo
da cui emerge un passo eclettico
ma accentuativo.

*

C’è un dislivello
tra acerbità smaniante e imperscrutabile ritmo d’azione.
Magneticamente si autoproclama il vuoto.
Ha uno sguardo limpido
con risalto monoculare.

Il luogo degli incontri: Senescenza di Fabio Ciriachi e il tempo presente

di Stefano Bottero

 

      Nella primavera del 2020 il tempo sembra aver ribadito la propria autorità, riportando la nostra attenzione alle sue norme. Sembra averci ricordato che alcuni confini, come quello tra noi stessi e il riflesso nello specchio, non ammettono la possibilità di una violazione. Fabio Ciriachi, nel suo ultimo lavoro poetico, ha scritto di questo.

Senescenza (Empirìa, 2018) è per diverse ragioni una raccolta unica. La densità della ‘realtà’ di cui è composta, l’assenza programmatica di una mediazione linguistica tra ciò che in essa si legge e ciò di cui essa si compone, la rendono difficile alla definizione critica. L’intelligibilità dell’espressione non viene mai meno e costituisce un principio poetico su cui poggia l’intero testo: quello della comprensibilità generale di ciò che viene raccontato. La sua prosa, equilibrata nella filigrana di una versificazione sottocutanea, si presenta come una frammentazione regolare dello sguardo nei momenti di una realtà compatta. La separazione tra ciò che il poeta scrive e ciò che ha sperimentato nella continuità dell’esperienza, del suo stesso esser-ci, si annulla.

Certe ore notturne consentono risvegli colmi di una stupida fiducia nell’impossibile –
Sfuma sui confini della veglia la facoltà di cambiare in meglio il corso delle cose –
Se non era disposto a capire quanto banali fossero le sue intenzioni non poteva concedersi a una terra capace di favorire l’esodo dei nativi –
Le case di città sono i loculi dove di officia la malavita e la malasorte
[1]

A volte viaggiatori così diversamente orientati verso una vecchiaia dignitosa s’incontrano con stupore reciproco per quanto si testimoniano a vicenda l’illusione di seguire una direzione che potrebbe anche essere ritenuta giusta non fosse che l’una smentisce implicitamente l’altra e dunque una così palese prova di relatività induce a non credere che esistano validi motivi per ritenere che il proprio itinerario sia il migliore – [2]

 

In una recente lettera aperta a Giorgio Agamben, Jean-Luc Nancy ha ricordato che l’eccezione, nel nostro ‘tempo di Corona Virus’, è regola[3]. Che ciò che abbiamo vissuto non costituisce lo stravolgimento di uno stato immobile delle cose, ma l’impatto tra un’eccezione virale e una società sempre più inedita nelle interconnessioni, sempre più ‘sconosciuta’. L’accadere del male, l’incidenza del dolore e del pericolo prendono oggi posto tra i fenomeni che tengono in piedi un edificio esistenziale paradossalmente singolare e collettivo. Nell’opera di Ciriachi, lo sguardo straniato del poeta-anziano coglie – e narra – la particolarità di questo paradosso fenomenico, situandosi nel punto esatto in cui si perde la distinzione tra ciò che è poetica e ciò che semplicemente esiste.

Scuote la testa molto più spesso di quanto non facesse quanto pure si credeva scettico –
E poi l’enigma dell’amore come malattia endemica della solitudine salvifica –
Il duale che assale e fa male e fa male e fa male
. [4]

Già Thomas Eliot scriveva nella conclusione di East Coker che “I vecchi dovrebbero essere esploratori”[5]. A loro attribuiva la consapevolezza che ogni cosa si fa enigma, nel tempo, per il tempo. “Man mano che invecchiamo / il mondo diventa più, strano, la trama più complicata”[6].  Così insegna Ciriachi in Senescenza, materializzando poeticamente ciò che c’è di indistinguibile nella continuità tra il vissuto e lo scritto. Alla stessa maniera, il nostro presente sembra avere insistito su questa lectio.

Le prime ore della notte esigono da lui il pagamento di debiti così elevati che potrebbero anche rivelarsi crediti manomessi con dolo per non renderli esigibili –
La coscienza notturna del vecchio è preda di quella scorta di anticoscienza maligna nata dall’aver cancellato ogni traccia del male fatto che più gli pesava –
Questo bisogno di apparire innocente che lo spinge a truccare le carte pur di credersi migliore attraverso l’immagine di sé che egli altri gli rimandano solo perché ingannati dal suo mimetismo –
La possibilità di riuscire a essere grazie a una costante e impeccabile pratica del sembrare
[7]

Tra l’inverno e primavera del 2020 il tempo ha imposto alla società il ritmo inedito delle ore di una veglia indesiderata. Nel confino in una stanza non concepita per ospitarci tanto a lungo, tutto questo ha posto in luce che non esistono pause nello scorrere del tempo, soltanto indistinguibile scorrimento. Così, involontariamente, Ciriachi ha scritto nella sua opera con maggiore esattezza di tantissime altre analisi sul nostro presente. Senescenza regala, in un momento storico violentemente imprevisto, un’impressione su ciò che tutto questo ha dato la possibilità di cogliere. Allegoricamente, forse, niente più dell’immagine di un vecchio riparato appena dalla pioggia in una piazza San Pietro deserta.


[1] F. Ciriachi, Senescenza, Empirìa, Roma, 2018, p. 24.

[2] Ivi. p. 50.

[3] J. Nancy, Eccezione Virale, «Antinomie», 27/02/2020, https://antinomie.it/index.php/2020/02/27/eccezione-virale/

[4] F. Ciriachi, Senescenza, p. 22.

[5] T. S. Eliot, Quattro Quartetti in Opere di T. S. Eliot, a cura di F. Donini, Bompiani, Milano, 1961, p. 503.

[6] Ivi. p. 502.

[7] F. Ciriachi, Senescenza, p. 39.

 

 

 

Due testi

di Antonio Amendola

                                  ACRILICO

 

MOLTO LENTO
                           POCO VELOCE
QUASI VELOCE
                           POCO LENTO
POCO VELOCE
                           MOLTO LENTO
POCO LENTO
                         QUASI VELOCE

GOCCIOLA ENSEMBLE
ENSEMBLE GOCCIOLA
MOLTO VELOCE
VELOCE MOLTO

QUASI LENTO CON STUPORE
CON STUPORE QUASI LENTO
CON TEPORE QUASI VELOCE
QUASI VELOCE CON TEPORE
MOLTO LENTO QUASI BASSO
QUASI BASSO MOLTO LENTO

MOLTO LENTO CON TEPORE

CON TEPORE MOLTO LENTO
QUASI VELOCE MOLTO VENTO
MOLTO VENTO QUASI VELOCE
QUASI LENTO QUASI VENTO

CON STUPORE SENZA VENTO
SENZA VENTO CON STUPORE
QUASI VELOCE CON TENTO
CON TENTO QUASI VELOCE
IN TENTO QUASI UN VENTO
QUASI UN VENTO IN TENTO
QUASI VELOCE CON LENTO
CON LENTO QUASI VELOCE

SENZA VENTO CON STUPORE
CON STUPORE SENZA VENTO
SENZA VELOCE CON VENTO

QUASI VENTO CON TENTO
CON TENTO QUASI VENTO
IN TANTO RI TENTO
RI TENTO IN TANTO
DI TANTO CON TENTO

IN TENTO   IN TEMPO

COL TEMPO  CON TEMPO

DI TANTO IN TANTO

 

MI TENTO   CON TENTO

IN TEMPO IN TENTO

CON TEMPO COL TEMPO 

 

IN TANTO DI TANTO

 

MI ACCORGO CHE E’ TRASCORSO MOLTO TEMPO

 

MI ATTRAGGO SENZA TEMPO E’ TRASCORSO IN TEMPO

 

SGOCCIOLA

SGOCCIOLA

SGOCCIOLA

SGOCCIOLA

SGOCCIOLA

SGOCCIOLA

SGOCCIOLA………….E IL QUADRO E’ COMPLETO

 

ENSEMBLE

ENSEMBLE

ENSEMBLE

ENSEMBLE—————E IL QUADRO RICOMINCIA

*

HOKUSAI-SONG———————————————————————–

LE PARETI DEL SONNO
NON HANNO L’ODORE
DEL FUMO E DEL FUOCO
LA LUCE ARRIVA-ARRIVA
DA BASSO-DA BASSO
PER NON DISTURBARE

IL SONNO DELLE PARETI
DI HO-KU-SAI-SAI DI ESSERE

I …….SURIMONO…………………….
NEBULOSI E L’ARIA LEGGERA

TRA PUBBLICITA’ E FRUTTI
——-A-VARIEGATA—VARIEGATI
I ROTOLI DI PENSIERI
ALLINEATI IN-BASSO-DA-BASSO
SI STENDONO COME BANDIERE
DEL COLORE-CALORE-CON-LORO
LE VEDUTE DEL FUJI……………………
RESTRINGONO L ‘IMMAGINE
DELLA MONTAGNA ANCORA
UNA RIPRESA A TRECENTO
SESSANTAGRADI-GRADINI
GRADONI-GRADONI-GRADONI
E IN PRIMO PIANO SCENE

                                                            DALLA VITA
                                                                                   DI PESCATORI

VECCHI-PESCATORI-ATTORI
CANNETI NEL TEMPO-LAMPO
ALLINEATI D ‘ISOLA D’ ELBA

vecchi-attori al tempo-lampo

 

LA MONTAGNA PRO-TA-
GO-NI-STA-RIMANE
IN SECONDO PIANO
PLANATO
DA UN FONDO
FONDALE
DI NEVE-NAVE
E NAVE-NEVE
IN-NEVATA

gli occhi di Hokusai, scrutano il tempo-lampo
nei manga appunti-appuntiti-notes
di un viaggiatore nello spazio-tempo

mai sazio d’imparare e disimpararsi
tra carte, cartine e mappe della mente
Hokusai restituisce l’eleganza dei marinai
lui non-navigante di mare……………………

 

DEL-LE VEDUTE———————————————————————-

DALLE VEDUTE
VIS-TE

 

RI-VISTE
MAGAZINE NEWS
OPENDAY
OPENMIND
DELLARCHITRAVE
DE-I CESPUGLI
PERPENDICOLARI
DELLE ROVINE
DELLE-ATTESE
DE-LULTIMO TRATTO
DE METRO-MACRO
DELLE PROSPETTIVE
SBILENCHE………………
DEI VIAGGIATORI
DISIN-CANTATI
DEL GIORNO
PRIMA DELLA NOTTE
VAGA E PARTICOLARE
DEI VIANDANTI
VISITATORI INDISCRETI
E DELLA NEBBIA STAGNANTE
FUORI DAL CORO
IN PLATEA
COME SE FOSSE
LA PRIMA SERATA
DI UNO SPETTACOLO
QUALUNQUE
E GRATUITO

 

si tratta…….quindi di procedere verso un’ economia versificata
un togliere piu’ che aggiungere—–scolpire piu’ che dipingere

 

E PROIEZIONI
ORTOGONALI
E SCALINATE
SOLE COME

 

hokusai e sai di essere se
sai di stare stare fermi si

 

ASCENSORI
SVUOTATI
ASCESA DE LIFT

ARCHI SOVRAPPOSTI
PARETI DISPARI
MOBILI LEGNANTI
LAMPADARI
D-ARIA D-ARIA-D-ARIA
ENORMI
                 COME ARMADI
                                               CHE VOLANO

SCALINATE
E SALISCENDI
E PICCOLI
UOMINI-ALCUNI
SOVRASTATI DALLE
ARCHI-TE-TTURE
SEMPRE
                PIU’
                     IM-MOBILI

 

DELLA VEDUTA
DALLA PROSPETTIVA
UNICA E CANGIANTE
ANGOLI
               E PERIMETRI
                                         SENZA CONTROLLO

 

DALLE VEDUTE
A VISTA
RI-VI SPALANCATE
ADD-OSSO

 

A-L-M-ONDO
INTIERO DI IERI
INUSITANTE
E AMPIO
NEL SUO CARATTERE
ANZI
         LA
             SUA
                     INDOLE……………………………………… STE

 

hokusAI
ai sai ho-ho
ku-ku-sai
ho sempre
con me sai
se ho-ho

 

ANZI LA SUA INDOLE
SILENZIOSA
MA NON ASSENTE
ABILE MA NON FRAGILE
DEDITA
ALLA RACCOLTE
DELLE FOGLIE
DEL GIORNO PRIMA
E NON SI SCOMPIGLIA
IN ALCUN MODO
FOGLIE MODESTE
PER UN AUTUNNO
IN SOSTANZA FRAGILE
DI PIOGGE E ARIA DE

 

 

 

mai sazio d’imparare e disimpararsi

tra carte, cartine e mappe della mente

Hokusai restituisce l’eleganza dei marinai

lui non-navigante di mare……………………

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEL-LE     VEDUTE———————————————————————-

 

 

 

DALLE VEDUTE

VIS-TE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RI-VISTE

MAGAZINE NEWS

OPENDAY

OPENMIND

DELLARCHITRAVE

DE-I CESPUGLI

PERPENDICOLARI

DELLE ROVINE

DELLE-ATTESE

DE-LULTIMO TRATTO

DE METRO-MACRO

DELLE PROSPETTIVE

SBILENCHE………………

DEI VIAGGIATORI

DISIN-CANTATI

DEL GIORNO

PRIMA DELLA NOTTE

VAGA E PARTICOLARE

DEI VIANDANTI

VISITATORI INDISCRETI

E DELLA NEBBIA STAGNANTE

FUORI DAL CORO

IN PLATEA

COME SE FOSSE

LA PRIMA SERATA

DI UNO SPETTACOLO

QUALUNQUE

E GRATUITO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

si tratta…….quindi di procedere verso un’ economia versificata

un togliere piu’ che aggiungere—–scolpire piu’ che dipingere

 

 

 

 

 

 

E PROIEZIONI

ORTOGONALI

E SCALINATE

SOLE COME

 

 

 

 

hokusai e sai di essere se

sai di stare stare fermi si

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ASCENSORI

SVUOTATI

ASCESA DE LIFT

 

ARCHI SOVRAPPOSTI

PARETI DISPARI

MOBILI LEGNANTI

LAMPADARI

D-ARIA D-ARIA-D-ARIA

ENORMI

                 COME ARMADI

                                             CHE VOLANO

 

 

 

 

 

 

 

SCALINATE

E SALISCENDI

E PICCOLI

UOMINI-ALCUNI

SOVRASTATI DALLE

ARCHI-TE-TTURE

SEMPRE

                 PIU’

                       IM-MOBILI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DELLA VEDUTA

DALLA PROSPETTIVA

UNICA E CANGIANTE

ANGOLI

               E PERIMETRI

                                          SENZA CONTROLLO

 

 

 

 

 

DALLE VEDUTE

A VISTA

RI-VI SPALANCATE

ADD-OSSO

 

 

 

 

 

A-L-M-ONDO

INTIERO DI IERI

INUSITANTE

E AMPIO

NEL SUO CARATTERE

ANZI

         LA

               SUA

                     INDOLE……………………………………… STE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

hokusAI

ai sai ho-ho

ku-ku-sai

ho sempre

con me sai

se ho-ho

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ANZI LA SUA INDOLE

SILENZIOSA

MA NON ASSENTE

ABILE MA NON FRAGILE

DEDITA

ALLA RACCOLTE

DELLE FOGLIE

DEL GIORNO PRIMA

E NON SI SCOMPIGLIA

IN ALCUN MODO

FOGLIE MODESTE

PER UN AUTUNNO

IN SOSTANZA FRAGILE

DI PIOGGE E ARIA DE

 

Epica Quotidiana

Tre testi poetici Epica Quotidiana, Data Entry, Rider, di una giovane autrice tratti dal libro uscito di recente Epica Quotidiana. Versi con un’impronta prosastica sul disagio sociale di una collettività sempre più infelice e rassegnata e sulle nuove e alienanti dinamiche del mondo del lavoro 3.0, tra progresso tecnologico, turbocapitalismo globale e modalità impiegatizie ottocentesche.

di Ilaria Grasso

 

Epica Quotidiana

Al mattino l’incrocio è un garbuglio
di monumenti e radiazioni.
Sveglia quanto basta per tenermi verticale
ho una giornata da mandare avanti
e tre semafori di una lentezza disarmante.
Quando scatta il verde attraverso il volume delle
cuffie per non sentire la gazzarra dei motori.  La metro
gonfia mi passa tra le gambe.
L’asfalto trema sotto le mie piante
dove l’inverno mi bagno e l’estate mi infuoco in compagnia di tanti dove sempre
per dovere o per fame sempre tocca ritornare.

In autobus al mattino la gente stanca
sale per andare a guadagnarsi il pane.

Avanziamo isolati dai vetri di una bottiglia
traboccante di una moltitudine di disperati.

Ogni tanto dai rami lungo i viali
scorgiamo bianche nuvole e raggi di
sole e riprendiamo a respirare.

Eppure sono tanti i poeti che mandano avanti il
Paese. Lavorano in ufficio o chissà dove per il mutuo
o per pagare le spese.
Vi ascoltano lo stesso nonostante le preoccupazioni.
Scrivono sul cellulare o su pezzi di carta di fortuna
nel centro di una piazza affollata o al capolinea dei mezzi.

Talvolta anche da lì un’ispirazione parte.

Arroccata sul sedile mi tengo stretta di
lato la borsa quasi fosse un fucile. Siete lì
in piedi come arbusti
e ogni frenata prova ad abbattervi
come una raffica di vento.
Ma siete così stretti che non
riesco a distinguere tronco e rami.
Solo al capolinea ogni pianta
riprende il suo spazio vitale e ogni giorno
questo rituale agli occhi miei appare
sempre diverso e sempre uguale.

In autobus alle nove di sera
vi ascolto anche se non vi conosco.

Siamo vicini come su un divano eppure tra
noi nemmeno uno sguardo neppure per
sbaglio durante tutto il viaggio.

Poi un suono dice che siamo a casa ma
ancora non riconosciamo le pareti.

Mi accendo una sigaretta
e avanzo a passo svelto per la strada.

Ho ancora i vostri occhi
davanti come i miei stanchi.

Ma non ti fanno un po’ di
tenerezza questi autobus Virginia
Raggi con i motori che come noi
non vorrebbero morire mai
con i fanali spenti come i nostri
occhi sempre le stesse fermate
sempre le stesse strade
con le voragini ai piedi
e le portiere bloccate
per le borse che non si riempiono mai?

Non ti fa un po’ di compassione
il capolinea vuoto alla stazione?

A noi che siamo stanchi ci pensi mai?
Ma tu lo sai se partiremo mai?

 

Data Entry

Negli anni le mani si sono fatte veloci
come quelle degli operai ai nastri trasportatori.

CRTL C CRTL V qualche volta CRTL X

Più veloce

CRTL C CRTL V qualche volta CRTL X
CRTL C CRTL V qualche volta CRTL X

Ancora

CRTL C CRTL V qualche volta CRTL X
CRTL C CRTL V qualche volta CRTL X
CRTL C CRTL V qualche volta CRTL X

CRTL V CRTL V CRTL V

Avrei voluto saperla prima la mia missione
qui e imparare solo poche lettere dell’alfabeto
e due formulette due da imporre al processore.

Invece mi trovo qui di fronte al
videoterminale con due master e un pensiero
critico da zittire e Lorazepam da ingurgitare
in pieno automatismo accelerazionale
inchiodata a una sedia narcisa
che ruota solo all’asse di produzione
con mille devoti proni al pensiero unico
liberale e altri anni luce lontani alla pensione.

L’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor
definiva i lavoratori scimmie ammaestrate.

E ora?

Interinali, a progetto o contrattualizzati,
riders, croppers o delocalizzati sempre
senza garanzie e prospettive
perennemente ai piedi del capitale.

I quadri non cambiano mai come i soggetti.
Passiamo solo dal figurativo all’astratto
tutte le volte col fianco esposto al ricatto.

Facciamo ciò che non può il processore
senza soluzione di continuità
per tre dollari l’ora.

In America, in Italia ancora non si sa.

Il circo va avanti sempre, inesorabilmente.
Fuori o dentro gabbie che nessuno si decide ad aprire
tra crisi, depressioni, psicofarmaci, bot e contrattazioni
come se davvero nessuno potesse farci niente.

La cultura slegata alla produzione
non vale niente.
Con la cultura non si mangia.

La gente lo ha capito per questo non legge.

E noi di cosa parliamo quando mangiamo?
Cosa pensiamo quando scegliamo?

Il ventisette di ogni mese siamo contenti
con il piatto di pastasciutta in mano.
Abbiamo già dimenticato la cena della sera prima.

Ora la scatola della Simmenthal
è nel cassonetto di fronte casa. Non

la vediamo, non la ricordiamo.

 

Un rider

La tovaglia si è allargata e non bastano più le
gambe per far arrivare in tempo la portata.
La comanda arriva sul cellulare e di corsa via in bicicletta
non sia mai la pizza vi arrivi fredda o che non
corrisponda l’ordinazione
quando freddo e neve tagliano la faccia e le rotaie
spezzano polsi e vene
e tutto ciò per una manciata d’euro e di olive ascolane.

Ma io tengo famiglia e non mi posso lamentare.
Sono un lavoratore flessibile come tanti.
Sono un precario che continua a piegarsi al ricatto come
il cartone della pizza veloce che ti trovi nel piatto.

Oggi come sempre non ho programmi.
Stasera mi butterò a letto sperando di godere

                          (anche di ottima salute)

L’altro giorno un collega ha perso una gamba sotto un
tram e abbiamo scioperato e ora temo
di aver perso pure quei venti euro che allo scorso
turno m’ero guadagnato.

Ilaria Grasso è originaria di Lucera (FG) e da molti anni vive a Roma. È impiegata e attivista transfemminista. Recensisce on line prosa e poesia su “Carteggi Letterari”, “Poetarum Silva” e “Zest Letteratura Sostenibile”. Ha pubblicato Le mie verdi miniere di sale (Arduino Sacco Editore).
Alcuni suoi versi sono stati inseriti nell’agenda poetica Il segreto delle fragole della casa editrice Lietocolle.Altri sono apparsi on line su “Atelier”, “Laboratori Poesia”, “Argo”, “Poesia Ultracontemporanea”, “I fiordalisi”, “Poetarum Silva”, “Carteggi Letterari” e “In-verso”. È presente con una sua poesia nella “Postazione per-manente contro il femminicidio e la violenza di genere” del blog “Un posto di vacanza”.
Recenti suoi lavori sono stati inclusi all’interno dell’opera Sud I Poeti e Secolo Donna 2019, con introduzione di Silvano Trevisani, edite da Macabor Editore.
L’ultima poesia di questa raccolta è apparsa su “La Repubblica – Roma” all’interno de “La bottega della poesia” di Gilda Policastro.