A cent’anni da “Ulisse”: un flusso di coscienza-lettura sull’opera di James Joyce

di Enrico Frattaroli

Il 2 febbraio 2022 è ricorso, insieme al centoquarantesimo anniversario della nascita di James Joyce, il centenario della pubblicazione di Ulisse, che l’autore volle far coincidere, come quella di tutte le sue opere, con il suo genetliaco.

Per questa occasione, mi sono sentito in dovere – essendo, oggettivamente, l’unico regista teatrale italiano ad essersi così a lungo, intensamente e singolarmente dedicato alla scrittura di Joyce – di editare una nuova versione di FLUIDOFIUME, la mia opera teatrale, poetica e musicale insieme, basata sulla concertazione degli stream of consciousness di Leopold Bloom, Molly Bloom e di Stephen Dedalus (la “trinità” di Ulisse) coniugati con la scrittura fluviale di Anna Livia Plurabella (un testo scritto in una lingua portata ai limiti e al di là dell’inglese, ma che, nel nostro caso, si avvale della versione italiana originale dello stesso Joyce), e con alcuni frammenti di Giacomo Joyce, un testo lasciato dall’autore allo stato manoscritto, pubblicato postumo, singolare per la sua disposizione grafica.

UN FLUIDOFIUME CARSICO

FLUIDOFIUME è un lavoro storico, iniziale e iniziatico della mia attività registico/autoriale.

 Sebbene non sia diventato uno scrittore, io considero il mio primo maestro James Joyce, la cui lettura integrale di Ulisse mi folgorò appena diciottenne. La difficoltà della scrittura, e quindi la sfida implicita nella sua lettura, fu il mio primo movente: ricordo ancora le parole dell’amica che per prima me ne parlò: “è il libro più difficile che mai sia stato scritto”. Ancora oggi prediligo scritture ‘difficili’, che esigono da me impegno, singolarità di percorso, altezza di sfida. I diciotto episodi di Ulisse, con le loro diciotto forme di scrittura, ognuna determinata dalla diversa natura degli eventi narrati, mi illuminava sul rapporto dialettico tra forma e contenuto, tra l’espressione e il suo oggetto. Qualcosa che andava oltre il libro, la scrittura, la letteratura: un paradigma del processo di creazione artistica. Così, il testo della mia prima opera teatrale non poté non essere il flusso di coscienza di Leopold Bloom, ma già in forma di concerto, già musicale nella struttura, nella sostanza, nel titolo: Mr Bloom – Ricercare a tre voci dispari e. Il flusso di coscienza – struttura non monologica ma polifonica, che interessava sia i flussi di Bloom, di Molly e di Stephen, sia il più ampio flusso di vita di Dublino in cui rifluivano – mi aveva imposto, per la sua singolare natura, di creare, in teatro, una forma di espressione ad esso coerente, idealmente isomorfa, in ogni caso inedita.

Il flusso di coscienza di Joyce fu una sfida embrionale per la mia scena ancora in fieri. Una sfida che non mi trovò solo: fu l’attore Franco Mazzi ad accoglierla e a condividerla con me fin dall’inizio, perseguendola insieme a me ad ogni ripresa, ad ogni riedizione dell’opera teatrale o radiofonica, diventando così lo storico, insostituibile interprete di Leopold Bloom.

In quel mio primo lavoro del 1984, c’erano già tutti i semi del mio futuro operare in Joyce (e al di fuori di Joyce). Ne emergeva una linea di tendenza fondamentale: la rinuncia ad una struttura drammaturgica a favore di una tessitura poetica e musicale, sempre più poetica, sempre più musicale: due dimensioni presenti, inscindibili e imprescindibili nella poetica di James Joyce, massimamente in Ulisse e Finnegans Wake.

FLUIDOFIUME, è stato rappresentato nell’ambito di manifestazioni e festival e in occasione di simposi internazionali fra cui: Venezia (Fondazione Cini, XIth International James Joyce Symposium, 1988), Parigi (Centre Georges Pompidou, Xème Colloque sur Joyce, 1989), Sydney (Crossroad’s Theatre, 1989), Melbourne (St. Martin’s Theatre, Melbourne Festival, 1989), Dublino (Project Arts Centre, International Dublin Theatre Festival, 1990), Lyon, (Théâtre Les Ateliers, 1992), Roma (Teatro Quirino, XVIth International James Joyce Symposium, 1998). Registrazioni radiofoniche sono state prodotte da RAI-Radio Uno (Audiobox, Napoli 1990) e RSI2, Radio Svizzera Italiana (Lugano1998 – Nomination Prix Italia 1999); una registrazione televisiva è stata prodotta da RAI Educational (Napoli 2012).

« non si sa mai di chi si masticano i pensieri » – la nuova declinazione – sarà presentata dalla compagnia storica che lo ha finora interpretato: oltre a Franco Mazzi (Leopold Bloom), Mirella Mazzeranghi e Carlotta Caimi (Molly Bloom/ALP), Galliano Mariani (Stephen Dedalus), Patrizia Polia (soprano), Diego Procoli (pianoforte).[i]

E sarà significativamente dedicato alla memoria di Giorgio Melchiori e di Jacqueline Risset, che presentarono e sostennero FLUIDOFIUME fin dall’inizio, con i loro scritti, prima stampati su programmi di sala, quindi pubblicati in raccolte di saggi.

«Fluidofiume non è un omaggio a Joyce – è una lettura in profondità, in termini di memorabile evento scenico, della natura e dell’essenza stessa del messaggio joyciano.»

(Giorgio Melchiori, programma di sala, Roma 1988)

«Avec une surprenante rigueur, l’espace scénique non scénographique du spectacle de Frattaroli retrouve, comme en se jouant, et de l’intérieur, les conclusions de la toute dernière philologie joycienne sur la continuité entre Ulysse et Finnegans Wake

(Jacqueline Risset, programma di sala, Centre Geoges Pompidou, Paris 1989)

Se le grandi opere letterarie danno vita ad una loro particolare visione del mondo, in Ulisse, Anna Livia Plurabella e Giacomo Joyce, Joyce implementa, in tre forme estetiche diverse, punti di vista sul mondo più vicini alle teorie della relatività e della meccanica quantistica che all’universo newtoniano della letteratura che li ha preceduti, e rispetto alla quale tracciano una scissione profonda, un solco irriducibile. Â

ANNA LIVIA PLURABELLA

«PaSatàn papè Satàn Aleppe! Padre Dante mi perdoni, ma io sono partito da questa tecnica della deformazione per raggiungere un’armonia che vince la nostra intelligenza come la musica. Vi siete mai fermati presso un fiume che scorre? Sareste capaci di dare valori musicali e note esatte a quel fluire che vi riempie gli orecchi e vi addormenta di felicità?» :

sono le parole che James Joyce rivolse ad Ettore Settanni dopo aver declamato alcune righe della sua auto-traduzione italiana, ancora in fieri, di Anna Livia Plurabella.

Joyce volle rendere in italiano la poetica di Finnegans Wake e lo fece ispirandosi alla fonè italiana della scrittura di Dante, facendone non un semplice punto di riferimento ma, come osserva Jacqueline Risset, il segreto stesso, il codice genetico della sua operazione. La scrittura della Commedia, in cui tutto è dialetto e tutto è lingua, è il modello globale di Joyce. La fonè dantesca vi è disseminata e impregna il testo anche laddove la Commedia non viene direttamente citata. E le stesse citazioni di Dante, il più delle volte tronche o inesatte, vengono deformate in base al suo stesso principio – la tecnica di deformazione a cui Joyce si è ispirato: Papè Satan Papè Satan Aleppe – e ricondotte ai registri ironici di Finnegans Wake.

L’auto-traduzione italiana di un episodio di Finnegans Wake, il testo letterario a rigore più intraducibile di tutti i tempi, non è solo un ineffabile omaggio di Joyce a Dante e alla nostra lingua, ma ci mostra in modo privilegiato in che modo si possa ricreare, restando fedeli, sia alla poetica del testo, sia alla nuova lingua d’arrivo, il gioco plurilinguistico di Finnegans Wake.

Il 2 febbraio del 1940, giorno del suo cinquantottesimo genetliaco, Joyce volle ascoltare due volte di seguito, declamata da Nino Frank (uno scrittore di Barletta naturalizzato francese), la sua versione italiana di Anna Livia Plurabella (a cui lo stesso Frank aveva collaborato). Oggi, nella prossimità delle due ricorrenze – dei cento anni dalla pubblicazione di Ulisse e dei settecento dalla morte di Dante – mi sembra di poter cogliere l’occasione di guardare a Dante dal punto di vista di Joyce e a Joyce dal punto di vista di Dante.

Finnegan’s Wake è la vecchia, anonima ballata popolare irlandese di metà Ottocento che fa da paradigma allo sviluppo narrativo di Finnnegans Wake di Joyce.Nella ballata, un muratore cade da una scala e muore. Durante la sua veglia, altamente alcolica come tutte le veglie irlandesi, qualcuno getta in faccia al cadavere un bicchiere di whisky. Finnegan allora si ridesta e, stupito per la veglia funebre che si svolge intorno a lui, la trasforma nella festa della sua resurrezione. A partire dal paradigma di questa storiella, Joyce narra le infinite storie che compongono la storia universale dell’uomo e fa di questa narrazione l’estrema sintesi verbale del creato.

Ricorro ai princìpi di bassa ed alta entropia della termodinamica per descrivere la lingua e il sistema testuale di Finnegans Wake, per cogliere nella ballata il momento iniziale, di bassa entropia, e in Finnegans wake, preso nel suo insieme, il processo di alta entropia, sia nella fabula che nella lingua deputata a narrarla. In verità, il testo di Joyce oscilla senza sosta fra livelli di bassa e di alta entropia. Sono le configurazioni variabili della storia, dei luoghi, dei tempi, delle vicende, dei personaggi, dei loro stessi nomi, costantemente declinati in accezioni diverse, molteplici, immensurabili, ma è soprattutto la lingua metamorfica ad oscillare inarrestabilmente fra livelli di bassa e di alta entropia semantica. Un’entropia che fluttua nel continuo passaggio da parole intatte, da vocabolario (bassa entropia), a parole composte, create fondendo termini di significato finito in uno ulteriore, un neologismo che conserva e supera i primi due indeterminandone il senso (alta entropia).

Ciò che accade alla storia accade al linguaggio, quel che accade sul piano della scrittura avviene su quello della lettura, o dell’ascolto, che poi sarebbe la lettura ideale di Finnegans Wake. La continua fluttuazione a tutti i livelli fa sì che il lettore/ascoltatore a tratti comprenda e a tratti si confonda, coinvolto nella più ampia, complessa indeterminazione del senso. Senza questa oscillazione, fosse fatto solo di neologismi compositi, il testo resterebbe in equilibrio statico, di massima entropia, totalmente estraneo, impenetrabile, scritto in una lingua totalmente straniera a chiunque, un rumore bianco, caratterizzato dall’assenza di periodicità, da un’ampiezza costante di tutto lo spettro semantico. Solo oscillando tra termini appartenenti alla lingua di base e neologismi compositi, conserva la sua possibilità di essere letto, immaginato. È la sua logica onirica, in cui non sono tanto gli oggetti e gli eventi o le lingue a cambiare quanto la loro inconsueta, inedita relazione.

In Anna Livia Plurabella l’energia che muove il linguaggio è il chiacchiericcio delle lavandaie, che è anche lo scorrere del fiume, che è anche il loro lavare, una energia costante, che non diminuisce, ma si conserva, come ogni energia, senza mai distruggersi. Il chiacchiericcio, il gusto del pettegolezzo, la curiosità, con tutte le modalità espressive, idiomatiche, intonazionali che l’accompagnano, serve a mantenere un fondo di bassa entropia nella comprensione del testo, contemporanea al contrappunto linguistico che sostiene: a tratti coincidendo con la sua chiarezza, a tratti divaricando verso inestricabili oscurità, mescolando cose ed eventi del mondo, trascinando con sé l’intera storia dell’uomo.

In Finnegans Wake, Joyce ci rende tangibile la limitata percezione che abbiamo del mondo, percezione superficiale, parziale, sfocata, che non riesce a tener conto di tutti i dettagli, al di là dello spazio e del tempo lineari, nell’ordine che potremmo definire “verticale” degli eventi e che, nel caso specifico, una percezione incapace di distinguere i livelli semantici addensati in un lemma, in una frase, in un periodo, nell’intero caosmos che è Finnegans Wake.

GIACOMO JOYCE

Giacomo Joyce, lasciato dall’autore allo stato manoscritto, è un testo composto da cinquanta unità di scrittura, disseminate su otto fogli da disegno non rilegati, in un alternarsi mai uguale di spazi bianchi e scrittura. Un testo ibrido, indefinibile – sebbene disparatamente definito – in bilico tra epifanie e flusso di coscienza; un testo unico nell’universo testuale di Joyce, che implica una lettura e uno sguardo altrettanto singolari.

Il manoscritto autografo in cui è stato ritrovato (pubblicato postumo nel 1968) non va considerata una stesura provvisoria, ma l’edizione definitiva, tipograficamente irriducibile di Giacomo Joyce. Di essa sono parti essenziali le dimensioni, il numero e lo stato non rilegato dei fogli, il loro aspetto di tavole da disegno, l’inchiostro in cui si manifesta e sustanzia l’ineffabile calligrafia di Joyce. In altre parole: la sua natura fisica, di scrittura non indifferente al supporto, ma che fa corpo con esso, e di cui la stampa tipografica non può che essere una riduzione simulacrale, in effigie, rinviante al manoscritto come alla sua matrice: il suo stato originale, irripetibile, dato.

In Giacomo Joyce, il bianco ha una valenza sostanziale, strategica, testuale: anche il bianco è scrittura, non può essere né eluso né eliso perché, in ultima analisi, è proprio su di esso che si fonda l’ordo grafico e sull’ordo grafico il sistema testuale, essenzialmente poetico, di Giacomo Joyce. Di più, la sua solidità testuale è proprio nel vuoto, nel bianco della pagina.

Come “Never know whose thoughts you’re chewing” è la definizione più illuminante, joyceanamente nascosta nelle pieghe di un monologo di Leopold Bloom, dello flusso di coscienza in Ulysse, così “The proteiform graph itself is a polyhedron of scripture” è l’ineffabile definizione di Finnegans Wake in Finnegans Wake, significativamente posta da Joyce alla fine dell’interminabile elenco di possibili titoli del mamafesta, il manoscritto trovato senza titolo di Anna Livia Plurabella.[ii] Per me, è la più calzante definizione post-litteram del manoscritto postumo, trovato anch’esso senza titolo, che è Giacomo Joyce: grafo proteiforme e poliedro di scrittura per la sua grafia autografa, per il grafico costituito dalla sua disposizione, per il grafo che si otterrebbe se si tracciassero tutte le relazioni e i rimandi da una narrazione epifanica all’altra istituiti dalla discontinuità e dalla non-linearità del testo. Un ologramma dal senso indefinito, inesauribile e insieme inafferrabile; una instabilità semantica che in Finnegans Wake ricorre all’infinito mentre in Giacomo Joyce rinvia al vuoto, che è altra cosa che il nulla.

In Giacomo Joyce, in assenza di un soggetto narrante, il pensiero, il sapere e la mente stessa che pensa e conosce si ‘transubstanziano’ nella rete di relazioni implicata dall’insieme dei segmenti epifanici. Nel primo caso, la conoscenza è già data, nel secondo, dev’essere appresa.

Giacomo Joyce è uno strumento per pensare pensiero non-scritto che quanto è scritto permette di pensare, scrittura del non-scritto, quindi, del non-scrivibile, scrittura che ― paradossalmente ― non dicendo, dice di più, dice quanto non avrebbe potuto dire dicendo: «the lesser for the greater». Una semplice collezione di epifanie sarebbe stata del tutto inabile ― proprio per l’assenza del vuoto ― a sostenere il peso di una coscienza e di una scrittura non-scritte, non-narrate, non-dicibili.

In Giacomo Joyce, l’autore implementa un sistema testuale in bilico tra epifania e flusso, sospeso tra due diverse dimensioni di scrittura della coscienza, un sistema i cui frammenti di consapevolezza epifanica rinviano, nel loro insieme, a un’ulteriore, increata epifania della coscienza. Un sistema mentale in cui qualcosa è, e insieme è qualcos’altro che non è ancora: una costellazione epifanica suscettibile di diventare flusso, una sorta di doppio stato, corpuscolare e insieme ondulatorio, della coscienza. Presi uno ad uno, i cinquanta paragrafi di Giacomo Joyce sono scorci di coscienza avvenuta; presi nel loro insieme, un orizzonte di coscienza a venire. Nello spazio di quest’orizzonte s’inscrive la complessa rete di relazioni che trasforma in flusso epifanico l’insieme discreto delle epifanie.

Ogni nodo epifanico è un evento di coscienza acquisito, strutturato e tradotto in scrittura; il tessuto delle connessioni, invece, è coscienza inacquisita, scrittura in fieri, in potenza. Solo una mente ‘esterna’ che attualizzi, in lettura, i processi di potenziale connessione tra i nodi epifanici, è in grado di produrre tale scarto di coscienza e di scrittura. Questa mente è, in prima istanza, la mente di Joyce che, nel disporre le sue cinquanta composizioni epifaniche, fa di Giacomo Joyce lo strumento di un doppio scarto, della sua coscienza e della sua scrittura. Non risulterà così impensabile, ora, concepire Giacomo Joyce come un testo che, nel produrre senso, si comporti come una mente: un testo-corpo, sistema nervoso, sistema pensante e pensiero: mente di James Joyce espansa nella mente ― e nella mente del lettore ― di Giacomo Joyce.

Giacomo Joyce confluisce in FLUIDOFIUME con due segmenti, tratti da due diversi fogli: uno dal verso del sesto, l’altro dal recto del settimo. Nel primo di essi, in cui si evoca una serata a teatro, mi avvalgo di una versione orchestrale della Marche funèbre di Chopin e di un’aria tratta dalla Martha di Flotow, M’apparì tutt’amor, che, in Ulisse, Joyce fa cantare da Simon Dedalus nel capitolo delle “Sirene”; nell’ultimo, di un’antica canzone irlandese, The lass of Aughrim, acme narrativo dell’episodio I morti, l’ultimo racconto dei Dubliners.

Ma le sue pagine vi confluiscono non solo con i nodi testuali sopra citati, bensì con le immagini del manoscritto e con gli studi grafici e le opere visive elaborati nel corso del mio lungo, appassionato studio su questo testo singolare, tutti lavorati in video.[iii]

ULISSE

J. Joyce nella Via Lattea

Ulisse è il testo più celebre di Joyce. Chiunque ne abbia sentito parlare o vi si avvicini, anche rinunciando ad entrarvi, sa che i suoi eventi si svolgono interamente in una sola giornata (16 giugno 1904) e che è diviso in diciotto episodi, scritti ognuno in una forma diversa e con una propria corrispondenza omerica. Sa, altresì, che è caratterizzato dall’uso intensivo della tecnica del flusso di coscienza (stream of consciousness) estesa ai tre protagonisti: Leopold Bloom, Molly Bloom e Stephen Dedalus. Tale tecnica non si limita a far conoscere al lettore i personaggi dall’interno, ma coinvolge l’intero sistema del testo, un sistema poetico, che istituisce una visione del mondo non estranea a quella relativa dell’universo elaborata negli stessi anni da Albert Einstein.

Di Ulisse, vengono a confluire in FLUIDOFIUME brani di flussi di coscienza tratti da punti diversi del testo: di Leopold Bloom da Ade (Il funerale), I lestrigoni (Il pranzo), Le sirene (La mescita), Nausicaa (Le rocce);di Stephen da Telemaco (La torre), Proteo (La spiaggia) e Scilla e Cariddi (La biblioteca); di Molly, ovviamente, da Penelope (Il letto).

I flussi di coscienza vengono enunciati in forma di monologo o di melologos (ma sarebbe più esatto, a rigore, parlare di logòmelos) a una, due o più voci, su musiche citate nel testo: quali parti integranti di esso (Martha), pensate dagli stessi personaggi (Blumenlied, Those lovely seaside girls, Love’s old sweet song) o su arie composte da Joyce, su versi di Yates (Who’ goas with Fergus?) o sui suoi stessi versi (Bid Adieu da Chamber Music). La musica è inscindibile dall’enunciazione verbale, mai in funzione di accompagnamento ma sempre in contrappunto con il dettato del monologo o del polilogo. Non è un lavoro semplice, per l’attore, esige l’apprendimento di una tecnica microfonica specifica, di un metodo di lavoro e di un sapere singolari. Musica e testo sono posti sullo stesso piano, procedono insieme alla concertazione di una stessa polifonia compositivo. L’attore armonizza la sua dizione con il fraseggio della musica, l’uno continua il discorso dell’altra e viceversa. Questa musica testuale, che non si avvale degli svolazzi, o delle essudazioni, o della consueta interpretazione attoriale, si svolge in una dimensione di interiorità, che oscilla in una gamma espressiva più stretta, oserei dire per frazioni d’intonazione.

La sovrapposizione delle voci, ovvero la natura polifonica di FLUIDOFIUME, risale agli inizi, ai primi studi, alle prime messinscene del 1984, e si è sviluppata, precisata, raffinata nelle successive produzioni, dal 1989 in poi. A dispetto della sua natura intima, il flusso di coscienza non è un monologo, ma una polifonia. Il flusso di coscienza di Bloom, testo-sorgente del fluidofiume, è il più attraversabile dei tre da altre voci, quello in cui la visione del personaggio dall’interno, sia di se stesso che del mondo esterno, si rispecchia in quella esterna del narratore, non più onnisciente, rivolta a descrivere sia i personaggi che il mondo in cui agiscono e pensano e di cui egli stesso è parte. Al punto che non esiste più una visione dall’esterno, in Ulisse, ma sempre e comunque dall’interno, sia dei punti vista, sia della scrittura.

In Ulisse tutta la realtà, non solo quella mentale dei personaggi, ma anche quella fisica delle cose e dei fenomeni, è interrelata e si comporta come un flusso di coscienza che comprende anche il lettore. Nessuna differenza fra mondo fisico e mondo mentale: sono fatti della stessa materia. La figura del narratore non garantisce al lettore una conoscenza oggettiva, omnicomprensiva, di tutto ciò che viene osservato. Narratore, personaggi e fenomeni sono strutture differenti di una stessa realtà. Il lettore acquisisce un sapere attraverso gli stream of consciousness – non formulati, non a lui rivolti – di Bloom, di Molly, di Stephen, e da eventi presentati da un narratore non più oggettivo e affidabile di loro, un sapere, e una scrittura, che accumulerà, e integrerà, e su cui inferirà, in base alla complessità della lettura che ne avrà fatto.

Non esiste visione dall’esterno, in Ulisse – così come in Giacomo Joyce e in Finnegans Wake – ma sempre e comunque dall’interno. Tutto il testo è “flusso interiore”: non rinvia ad un’essenza metafisica, ad una realtà prima o oltre di sé: è quella stessa realtà. Il mondo è un insieme di punti di vista in relazione gli uni con gli altri, se non c’è un mondo visto dal di fuori è perché un fuori dal mondo non c’è.

Il tempo di Ulisse non è (non è solo) il tempo cronologico in cui si susseguono gli eventi della giornata, è il tempo mentale del flusso di coscienza, del presente, della memoria, delle tracce che il passato ha lasciato, così come delle anticipazioni lanciate sul tempo a venire. Non esiste un tempo esteriore che li contenga. Ulisse non abita la mente del lettore in una successione lineare del tempo, ma è costantemente rinviato a quanto già scritto in luoghi testuali precedenti, che rinviano indefinitamente (non sappiamo mai quali, dove, quando e da chi) a quelli a venire nel testo.

Il primo amplesso fra Bloom e Molly sul promontorio di Howth ha almeno tre dimensioni di esistenza: come lo ricorda Bloom (nei Lestrigoni/Il pranzo), come lo evoca Molly (in Penelope/Il letto), come lo immagina il lettore mettendo in atto la relazione potenziale fra i due punti di vista. I primi due sono scritti, quello del lettore no, è lui che lo “scrive”. Questa relazione è resa possibile dal sistema del testo, che inscrive il flusso di Bloom e il soliloquio di Molly in tempi, luoghi e punti remoti del testo, come del tempo, ma suscettibili di entrare in risonanza tra di loro. Solo il lettore può attualizzare questa relazione, che i personaggi ignorano, che il narratore elude, che l’autore rende possibile senza indicarla. Devono essere separati, discreti, se il lettore deve metterli in relazione. Come i cinquanta sintagmi di Giacomo Joyce.

Nell’episodio di Calipso/La colazione, il passaggio di una nuvola che oscura il sole induce in Bloom pensieri di desolazione e di morte:

«Un Mare Morto, in una terra morta grigia e morta, la grigia vulva affossata del mondo.»

La stessa nube, alla stessa ora, ma una sessantina di pagine prima, viene osservata da un altro spazio fisico – la spiaggia – e mentale, il flusso di coscienza di Stephen:

«Si rannuvola. Nessuna nube nera in nessun luogo, vero? Temporale. Tuttoluce egli cade, superba folgore dell’intelletto, Lucifer, dico, qui nescit occasum».

Il passaggio della medesima nuvola avviene alla stessa ora, ma noi la osserviamo da due punti di vista singolari, interiori, irriducibili l’uno all’altro: il Mar Morto di Bloom e la caduta di Lucifero di Stephen, riflessa in ciascuno di loro. La nube non è data in sé, oggettivamente osservabile, osservata, esiste solo nella declinazione dei due stati interiori e come risultato di una relazione che solo il lettore è nella posizione di poter cogliere, non più come oggetto, ma come processo, non come evento da nessuno oggettivamente osservato. Il lettore è il terzo elemento indispensabile perché i due eventi vengano messi in relazione indissolubile. Una relazione che lega Bloom a Stephen.

I ventotto stili in cui prende forma il capitolo del Il ciclope/La taverna (epico, eroico, biblico, romanzesco etc.) ripropone ai relativi livelli letterari, della stessa scrittura, i modi innumerevoli in cui gli stessi eventi prendono forma o si rifanno o si gemellano ad altri eventi storicamente, letterariamente situati. Quegli eventi sono un’immagine più ricca ma più sfocata di una “stessa” realtà, stessa, ma a rigore, inesistente in una qualsivoglia forma oggettiva, certa e immutabile.

L’episodio di Nausicaa/Le rocce, propone due opposti modi di vivere e vedere lo stesso evento che li mette in relazione stretta: Bloom, che si masturba nei pantaloni eccitato da Gerty, la quale, a sua volta, sottilmente lo provoca. Due stili di scrittura opposti vengono messi in atto: la visione da romanzo d’appendice di Gerty, uno dei flussi di coscienza più estesi e variegati di Bloom.

Da questa angolazione, la considerazione di Bloom formulata ne I Lestrigoni, che fa da sottotitolo a questa ultima versione di FLUIDOFIUME, è la definizione più sintetica, illuminante – e attendibile, direi – dello stream of consciousness messo in atto da Joyce in Ulisse:

« non si sa mai di chi si masticano i pensieri »

In Ulisse, nessun personaggio è, a rigore, possessore del proprio flusso di coscienza. Si sgretola la sua identità di individuo autonomo e chiuso proprio nel momento in cui (e proprio perché) si attinge ai suoi moti più intimi. Si sgretola la figura del narratore, non più affidabile e sapiente, non più oggettiva voce narrante, proprio nel momento in cui (e proprio perché) la separazione fra la sfera interna ed esterna del personaggio si fa relativa al resto del mondo, che siano pensieri di altri personaggi, spazi, eventi o incursioni del narratore stesso.

In Ulisse – ma anche in Anna Livia Plurabella e in Giacomo Joyce – il lettore entra, a pieno diritto, nel sistema dell’opera. Ma nessun lettore è posto nelle condizioni – non date – di “completare” l’opera dal di fuori di essa. Il suo “flusso di coscienza” sull’opera si situa al suo interno: come quello di un personaggio, di un evento fra gli altri.

Le cinquanta composizioni di Giacomo Joyce non sono tessere di un mosaico da ricomporre in un’immagine, momenti da riordinare nel tempo di una storia, ma cinquanta nodi tutti correlati fra loro: una rete epifanica offerta agli occhi e alla mente e all’immaginario del lettore, di ogni lettore.

E che dire di Anna Livia Plurabella, il senso indeterminato della cui lingua, iper-italiana ma oltre i confini dell’italiano, incessantemente afferrabile e inafferrabile, diversamente ondeggia e vacilla nelle orecchie di ogni ascoltatore?

Δ

Franco Mazzi: Leopold Bloom

In questa edizione, FLUIDOFIUME è colto nell’avvicinarsi al suo delta, con i sedimenti di quanto ha portato con sé, di edizione in edizione, di corso in ricorso; nel suo estendersi, nel tempo, da Ulisse ad Anna Livia Plurabella a Giacomo Joyce, fino a se stesso, mentre si approssima, asintoticamente, alla foce.

Nel suo fluire “mastica i pensieri” di Bloom, di Stephen, di Molly, il chiacchiericcio di Anna Livia Plurabella, i nodi “epifanici” di Giacomo Joyce, e fa del suo manoscritto il suo cosmo, con le sue orbite, le sue galassie, le sue costellazioni di scrittura.

In questo discreto, discontinuo fluire, Bloom può leggere Giacomo Joyce, Anna Livia mescolare i lemmi del proprio scivolare verso il sonno con le parole assonnate di Bloom sulla spiaggia della sua Nausicaa; Molly e Leopold rievocare il loro primo amplesso sul promontorio di Howth dalla distanza di centinaia di pagine e da speculari punti di vista, Stephen irrompere con le acque venefiche dei suoi rimorsi per la morte della madre nei plumbei flutti del Mar Morto immaginato da Bloom al passaggio di una nuvola che gli oscura il sole. In base allo stesso principio, la Martha di Flotow («l’aria di Dedalus» nelle “Sirenedi Ulisse) può farsi concerto nell’evento del “Loggione”, e The lass of Aughrim (da I morti in Dubliners) diventare «la voce di lei» nella sequenza aperta da “Slittamento”: due nodi nella rete di Giacomo Joyce.

FLUIDOFIUME è un mio flusso di lettura – un mio stream of consciousness – sull’opera di Joyce.

POIESIS

La scrittura di Joyce, nei tre testi di cui ho trattato e che rientrano nel mio lavoro, è essenzialmente poetica. Forse è questa sua dimensione di scrittura che mi ha attratto, inconsapevolmente, alla sua prima lettura. E, insieme, la consustanziale dimensione musicale di Ulisse. Ed è la dimensione, il sistema testuale che mi ha condotto, senza scampo, alla forma assunta dal mio teatro.

Il mio è un teatro non tematico, non narrativo, a rigore neanche drammaturgico, ma essenzialmente poetico. Un teatro la cui scrittura si offre come partitura organica di testo, musica, immagine, spazio. Una poiesis alla cui complessità lavoro in prima persona, curando ogni aspetto, come un video-maker, un musicista, uno scrittore, un regista, in breve: come un autore o, semplicemente, un artista. Sulla scena, le dimensioni testuali, musicali, spaziali e visive si integrano come fili di un unico tessuto compositivo. Il teatro vi appare come una delle dimensioni poetiche e insieme come la pagina, lo spazio in cui tutte si inscrivono e si muovono: una sorta di ipersfera, che il teatro racchiude e da cui, al tempo stesso, è racchiuso. Si parva licet componere magnis : «parendo inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude».


[i]. Per una documentazione estesa sulle varie edizioni dello spettacolo, si rinvia alle relative pagine del sito web: www.enricofrattaroli.eu.

[ii] Joyce, James, Finnegans Wake, Faber and Faber (London: 1976, p.107).

[iii]. Su Giacomo Joyce ho pubblicato un saggio, ENVOY – verso : in : attraverso : da : Giacomo Joyce [ Studi irlandesi. A Journal of Irish Studies – Firenze University Press 2015]; ho tenuto seminari al Dipartimento di Letterature Comparate dell’Università di Firenze e al Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università di Roma Tre; ho realizzato un’opera video, Non Hunc Sed Barabbam, presentata alla XIIIth James Joyce Italian Foundation Conference, Joyce’s Others / The Others and Joyce (Roma, 2020).

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