Le “Piante del mio giardino”di Michele Tortorici

di Anna Santoliquido

La pandemia ci fa rimpiangere eventi preparati con cura che si pensava di protrarre negli anni. Il 17 ottobre 2019, due valenti docenti di Bari, l’illustratrice Liliana Carone e la segretaria del Gruppo GISCEL (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica) Puglia-Bari, Gheti Valente, diedero l’avvio alla prima edizione del Festival di Letteratura, Arte e Musica che, con il patrocinio dell’Assessorato al Welfare del Comune di Bari, si sarebbe snodato fino a giugno. E fu in una di quelle tappe – esattamente il 18 ottobre – che mi fu proposto di presentare i versi di Michele Tortorici.

Ci sono stagioni della vita che ti regalano improvvise delicatezze come quel vento leggero che ti sfiora inaspettatamente le guance. Mi ha sorpreso Michele Tortorici con la struttura «poematica narrativa» dei suoi componimenti, il respiro lento, la «simbiosi onirico-sensuale» con il paesaggio, il rapporto con gli alberi, la «quieta inquietudine», elementi peraltro già rilevati da un lucidissimo Mario Lunetta nella prefazione a Viaggio all’osteria della terra,edita daManni nel 2012. La silloge annovera la sezione “Papaveri e papere” nella quale vi sono alberi «che forse non sanno nemmeno / se sono proprio alberi o nuvole». E crescono foglie «un po’ bambine e che giocano / a nascondino con la luce» («Prunus», p. 94). In detta sezione si rintracciano varie consonanze con il libro Piante del mio giardino, pubblicato con Campanotto nel 2018, che ho avuto il piacere di presentare.

L’Autore, originario dell’isola di Favignana, nelle Egadi, e residente a Velletri, ha rivisitato l’assunto del poeta e filosofo americano Ralph Waldo Emerson (1803-1882) secondo il quale: «La bellezza ha in sé la sua ragione / per Essere».

Michele in estate ritorna nella sua isola, per riprendere il dialogo con il mare e con gli esseri vegetali che sembra lo stiano aspettando. L’amorevolezza che lui riserva alle piante è ricambiata con sfumature di colore, profumi, fioriture e persino con movimenti che suggellano la fratellanza: «Così questi due ulivi, che non possono / aspettare, come tutti gli ulivi fanno, le carezze / di chi raccoglie i loro piccoli frutti, piegano / i rami per sfiorarmi il collo» («Due ulivi», in Viaggio all’osteria della terra, p. 87).

Un altro dato che colgo da una precedente raccolta, Versi inutili e altre inutilità (Unicit, 2010) è il concetto di inutilità. Il poeta dichiara di non saper scrivere inni, ma versi inutili le cui parole non vanno gridate ma sparse nell’aria in modo che la gente possa respirarle. E forse così qualcuno «potrebbe trovare il senso» e persuadersi, che nella notte, oltre al buio, doveva esserci stata «qualche altra cosa». Le parole inutili e testarde potrebbero sfidare il tempo e presentarsi come pietre. La filosofia del segno creativo e la ricerca del senso sono condensati in frasi che non smettono di misurarsi con le forze della terra e del mare: «La sanno lunga sul serio, per tutte queste cose che conoscono, / le isole. Sono cose / difficili da sapere, chi potrebbe negarlo? Non è dunque / solo spocchia, la loro, ma vera conoscenza» («Che cosa conoscono le isole», in Il cuore in tasca, Manni, 2016, p. 39).

L’autoironia e il refrain sono altre due cifre di Tortorici. Francesco Muzzioli, nella prefazione a  Il cuore in tasca,sostiene che si tratta di «poesia di abbassamento», fondata sul dubbio e sul rimuginare. Una «poetica “para-crepuscolare”» che ingloba il lettore.

Nella scrittura di Tortorici il poeta non ha l’aureola, fraternizza con il creato; utilizza parole fragili e metafore che travalicano il senso letterale. Con versi lunghi e discorsivi, egli interloquisce con il fruitore, che è parte integrante del cammino creativo. Nei testi la luce e l’ombra sono sorelle.

Il mito, la filosofia, la letteratura sorreggono elaborati che appaiono astratti e concreti a un tempo. Il poeta dichiara di perdere il passo, ma di avere il sesto senso che «è un senso di libertà». Un’altra particolarità che ho tratto da Il cuore in tasca,è il poeta-untore, ossia colui che contagia una malattia «benché non grave, cronica» (“Non ho fatto niente”, p. 35). C’è nei versi una «discorde concordia che è perenne / alimento del divenire» («Le piante di lentisco», p. 44).

Il libro di un autore non è mai scollegato dal resto della sua produzione. Ho ripercorso, per sommi capi, alcune opere precedenti, per seguire le dinamiche semantiche ed estetiche del Nostro, tenuto conto che siamo di fronte a uno studioso di letteratura italiana, che ha consegnato alle stampe saggi, romanzi e altri lavori strettamente connessi alla lettura del testo poetico.

Nella premessa al volumetto Piante del mio giardino Michele attesta di avere un giardino, di curarlo personalmente e di parlare con le piante. Cicerone nelle Epistulae ad familiares scriveva: «Se presso alla biblioteca ci sarà un giardino, nulla ci mancherà». I gesti e i comportamenti di Tortorici costituiscono il suo habitus di uomo e di intellettuale. Conversare con i vegetali, farsi compagnia, renderli felici sono pilastri di una materia poetica che intriga il lettore, riportandolo alla leggerezza e alla comunione con la natura. Idee che ricordano “Terre di ginestra”del Nobel irlandese Seamus Heaney: «Per tutto l’anno la ginestra / può fare uno o due germogli / ma ora è in piena fioritura. […] Dorate, frastagliate, agili, increspate, / questa rachitica, asciutta ricchezza / persiste sui colli, lungo i fossi di pietra, / per letti di selce e campi di battaglia» (dalla raccolta Una porta sul buio, Tea, Milano 1998).

Il legame tra l’umano e il vegetale è anche frutto della consapevolezza di appartenere entrambi «alla progenie / di tutto ciò che vive e muore». Il riferimento a Lucrezio è uno dei tanti stimoli offerti al lettore. La preoccupazione per il cambiamento climatico e le conseguenze per il futuro della Terra traspaiono dal dialogo con le piante a cui il poeta chiede resistenza. Il disastro ambientale è un «baccanale» e le opere di Euripide sono ammonimenti.

Il giardino è un universo in miniatura nel quale coesistono il bene e il male che è difficile disgiungere. Difatti, il taglio delle radici infestanti di alcune robinie ha richiesto un compromesso.

L’attenzione agli allori, con citazioni di Petrarca e Leopardi, l’uso di un linguaggio ‘filiale’ verso i piccoli germogli chiamati “pupetti”, la fermezza dell’intervento e il rispetto della libertà dei giovani allori afferiscono all’etica: «Quando il loro tronco, da tenero, / cominciava a farsi legnoso, li interravo / di nuovo: Oramai / dovete vedervela da soli, era l’avvertimento / con il quale li accompagnavo» («Gli allori», p. 25).

Le similitudini dilatano il significato degli enunciati. I fiori lilla degli alberi di Giuda,  «sia pure / in pochi piccoli grumi», sono paragonati a «ritagli / di broccato lasciati cadere e poi dimenticati / lì da un sarto maldestro» («Gli alberi di Giuda», p.27), mentre le «macchie color della ruggine», che coprono le foglie dei viburni, sono accostate alle lentiggini che «colorano / a volte guance di ragazze / dalla pelle chiara» («I viburni», p. 28).

La gentilezza e la schiettezza delle piante sono le stesse del poeta che partecipa il fruitore (vedi le frasi: «avete sentito?» o «lo sapete tutti», ecc.). La raffinatezza espressiva connota specialmente i versi delle piante aromatiche. I colori della lavanda ricordano il mare e il cielo «entrambi / in un giorno di tempesta». Il ricorso a Pascoli si addice all’incanto e alla generosità della natura.

Il timo, la menta, la mentuccia, la santolina (con fiori che «somigliano a piccole / aureole»), diffondono il profumo più intenso al tramonto «come se volessero / dire qualche cosa a proposito / del giorno che se ne va: magari soltanto / accennare un saluto o fare una breve / osservazione sul trascorrere del tempo». Anche le «piccole e poco appariscenti» piante tengono a lasciare il ricordo di sé e lo fanno con l’odore. Loro, «memento precario della finitudine», sono «tanto discrete quanto generose / maestre di vita» («Ora concludo davvero», p. 36).

Il poeta, con incedere lento e sobrietà linguistica, ha disegnato un mondo di significati e significanti, nel quale si ravvisano i principi dell’esistenza. Egli governa con saggezza il rapporto con tutte le creature terrestri, nel gioco perenne della vita e della morte. Come le piante e le erbe aromatiche del suo giardino, Michele vuole lasciare un’impronta. Goethe asseriva: «Cerco di osservare ciò che ho sempre sotto gli occhi: il giardino di casa, la mia strada. E tutto mi sorprende».

Per concludere, riprendo un pensiero di Roberto Mussapi riguardo alla poesia di Seamus Heaney: «La poesia di Heaney non sarebbe stata la stessa se il paesaggio non fosse stato colto guidando. Tra i suoi strumenti conoscitivi il volante è sicuramente uno dei principali» (Prefazione a Una porta sul buio, p. 7). Io aggiungo due brevi considerazioni: la prima che la poesia di Tortorici non sarebbe stata la stessa senza il suo giardino; la seconda che il giardino non sia solo un luogo fisico, ma un abito mentale. La cura e la ricerca della bellezza raffinano l’uomo. Coltivare la propria interiorità e la relazione con l’altro richiedono un tempo lento e una misura da cui possono nascere tenere piante e profumatissimi fiori.

La lettura dell’opera di Michele Tortorici ha, inoltre, evocato nella mia mente i lavori della poeta, scrittrice e botanica inglese Vita Sackville-West (1892-1962), che in gioventù ho amato molto. Entrambi hanno fatto del giardino un’opera d’arte.

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