di Marco Palladini
Oramai ottantenne Pippo Di Marca esordisce come autore letterario con un fluviale romanzo Linee spezzate nella tempesta (Fermenti Editrice, 2020, pp. 582, € 25,00) che è forse il postremo compimento di una giovanile ambizione di diventare uno scrittore. Ora è difficile considerare Di Marca un mero esordiente, essendo lui un regista, attore e drammaturgo di lungo corso. Ha alle spalle mezzo secolo di mercuriale attività teatrale in cui lui è stato, soprattutto negli ’70 e ’80 del Novecento, uno dei più significativi esponenti del teatro di sperimentazione o d’avanguardia, che dir piaccia, esploso nelle famose o famigerate cantine romane. In questo esteso arco di tempo creativo lui più volte ha tratto ispirazione per i suoi spettacoli dalla letteratura, attraversando autori del calibro di Joyce, Gadda, Kafka, Wilde, Cortàzar, Manganelli, Bufalino, Lautréamont, Sartre, Sanguineti, Bolaño etc. Nel suo avanguardistico teatro, sottomesso al primato della scrittura scenica, le opere letterarie venivano però decostruite, frammentate, polverizzate, citate, parafrasate, rese ellissi o traiettorie semantico-metaforiche per esaltare la teatralità del teatro.
Nel presente romanzo Di Marca si pone, invece, come un narratore a tutto tondo, che dispiega una vena fabulatoria e descrittiva che da una parte rimanda a certo ingordo, turgido realismo psicologico da romanzo ottocentesco, dall’altra parte rinvia a una dimensione epico-vitalistica di stampo rabelaisiano. Quel che è certo è che Linee spezzate nella tempesta è un romanzo anti-mainstream: non c’entra nulla con la linea del romanzo borghese che va da Moravia a Sandro Veronesi, passando per Bassani, Bevilacqua, Siciliano, Piovene, Montefoschi, Albinati e tanti altri; ma non c’entra nulla anche con la linea dell’antiromanzo novecentesco, penso al Nouveau Roman francese e in Italia ad Arbasino, Balestrini, Massimo Ferretti, il primo Malerba, Calvino, Leonetti, Lunetta, Toti etc.
In questo senso, è un prodotto fuori tempo e controcorrente che si spiega soltanto con l’urgenza personale dell’autore di richiamare le due città cardine della sua esistenza: la natia Catania e Roma, il suo luogo di elezione, dove si è svolta per intero la sua vita artistica. Infatti, il libro si struttura come una doppia narrazione, si tratta in pratica due romanzi incastrati uno nell’altro che si svolgono spaziotemporalmente a Catania nell’agosto del 1960 e a Roma tra il novembre 1974 e il luglio 1975 (con una coda che arriva al novembre 1989). A fare da cerniera della doppia narrazione, che è anche una doppia rievocazione, è il personaggio del catanese Mattia Vinciguerra detto lo Sfondato, ’u Sfunnatu, una destinale figura di lumpen-proletario errabondo in mezza Europa e fuggitivo e sfuggente per definizione. Quasi un novello Pantagruel, insaziabile di birra, di cibo e di sesso, insomma una figura arcaica, capace di incarnare, appunto, un vitalismo kako-epico, epperò venato di sfumature malinconiche e nichiliste, sversato ad un cabotinage esistenziale senza baricentro, proprio di uno che va alla deriva, sopravvivendo alle evenemenzialità del quotidiano e insieme manifestando una specie di filosofia etologica, animale, da un lato primitiva ed elementare, dall’altro piena di ferite e di fragilità interiori.
A petto a lui risulta ben più debole la figura di Roberto, il suo interlocutore e compare di notturni bagordi, un 25enne romano, neolaureato, mantenuto dai genitori borghesi, aspirante poeta, che riassume forse con troppi clichés e stereotipi la tipologia dei ventenni del movimento anni ’70, pur se il suo impegno e la sua coscienza politica appaiono più di facciata e di principio, che realmente esplicati nelle pieghe della narrazione.

Ciò che oscuramente attrae i due soggetti è l’essere due ‘losers’, due perdenti e perdigiorno e perdinotte, due flaneurs nottivaghi che si accompagnano per spropositare, per cianciare, per parlarsi addosso, per strafogarsi e poi deiettare e vomitare tranquillamente per le strade vuote e buie come per compiere un fato inesplicato e inesplicabile. Il vero punto di invenzione diegetica del romanzo è l’evocazione che fa lo Sfondato di una sorta di terminale disfida dell’onore e della birra che si svolge nell’arco di una notte estiva, denominata “il tocco, ’u toccu”, e che vede come contendenti un piccolo mafioso locale detto il Califfo, e il protettore di Vinciguerra, il Sindaco, un netturbino insospettabilmente acculturato, che si immolerà sull’altare dell’onestà e della dirittura morale. Ecco, insomma, il classico scontro tra il cattivo ed il buono contorniati da una ventina di folkloristici personaggi che rappresentano un vivido, inferico spaccato popolar-proletario e antropologico-culturale (o sottoculturale) della Catania anni ’60. Qui Di Marca dà fondo a tutta la sua fantasia linguistico-nomenclatoria (da AmadiueFuttioprossimu a Divanu Stortu, da Fiureruvarveri a Fimminarufausu, da Cavadduzzu a Scansajob, da TanuAmatu a Flipper etc.) per rappresentarci il teriomorfo consesso. Va, da questo punto di vista, rilevato che il romanzo più che per il ‘che cosa’ racconta, risulta convincente per il ‘come’ lo fa, attraverso un rigoglioso espressivismo, talora para-gaddiano, crivellato di espressioni dialettali siciliane (in massima parte) e romanesche (in misura assai più contenuta). D’altro canto, Di Marca pratica una diseconomia del racconto, la sua fabulazione ostenta uno stile basato sulla ridondanza iperbolica, sulla ripetizione, sulla iteratività, anche mercè l’indugio, il rinvio, la sospensione, e un fiume di digressioni anche al quadrato. L’input narrativo che sostiene principalmente la storia evocata da ’u Sfunnatu, appare pure un delirio autofagico, la ossessiva analisi di un autodivoramento psichico virtualmente e potenzialmente interminabile.
La demenziale guerra di birra simboleggiata dal ‘tocco’ tra il Califfo e il Sindaco viene descritta attraverso una miriade di notazioni e infinite sfumature, neanche fosse la battaglia di Waterloo con la precisazione di tutte le tattiche e le strategie e le sottostrategie messe in campo dai contendenti per un esito peraltro, forse già segnato in partenza. Ecco Di Marca si immerge in questa materia anche canagliesca, ma ricchissima di particolari per farne una epopea, una parabola mitopoietica che probabilmente riflette storie e vicende vissute quando era un ventenne di belle speranze nella città etnea. Questo è il cuore del romanzo come rito mortale, come sedicente ‘autosacramentales’, rappresentazione dei misteri, laddove tra sacramentare e bestemmiare c’è una stretta interfaccia.
Nel libro c’è anche molto altro: una lunga digressione su Berlino e sul bordello gestito da Belinda, una puttana tedesca che cercava una catarsi per l’Olocausto, offrendosi gratuitamente a tutti i clienti ebrei o ebreizzanti, e con cui Vinciguerra intrattiene una relazione di quattro anni. C’è poi un omaggio al teatro d’avanguardia degli anni ’70 per il tramite degli spettacoli di Carmelo Bene visionati da Roberto, e persino un auto-omaggio laddove si ricorda che l’origine della storica denominazione della compagnia di Di Marca “il Meta-Teatro” si deve ad un articolo di Angelo Maria Ripellino “inneggiante alla grande poesia del piccolo meta-teatro!”.
Ma, ripeto, il vero centro del romanzo è altrove, è nel momento in cui si inscena con potente ardore letterario la corda pazza e crudele dei siciliani, nutrita da un mistilinguismo ben temperato o ben stemperato, talora intemperante. La debordante scrittura di Di Marca non si lascia imprigionare da facili gabbie critiche, mi sembra comunque rimandare ad un mix non ovvio e originale tra Verga e Bolaño, tra D’Arrigo e Moresco. Se la tempesta è la vita e le linee spezzate sono le traiettorie interrotte dei due protagonisti, questo libro mi ha fatto venire in mente un pensiero di Alain Badiou: “Secolo delle resistenze e delle epopee, distruttore senza rimorsi, il XX secolo ha voluto, nelle sue opere, uguagliare il reale di cui aveva passione”.